sabato 3 giugno 2017

Il negozio di liquori

«Facciamo un salto al negozio di liquori?» propose Rahul alla sorella, sedendosi sul letto e spiegazzando alcuni fogli. Frugò tra nastri e bigliettini prendendo in mano ogni cosa e poi lasciandola ricadere.
«Adesso?»
«Hai altri programmi per la serata?»
«Be', no. Però a Ma e Bapa sembrerà strano se usciamo così, all'improvviso.»
Rahul alzò gli occhi al cielo. «Gesù, Didi. Hai quasi ventiquattro anni. Davvero ti importa ancora qualcosa di quello che pensano loro?»
«Stavo per mettermi in pigiama.»
Lui prese le forbici, lo sguardo concentrato sul lento aprirsi e chiudersi delle lame, come se ne scoprisse la funzione per la prima volta. «Da quando sei diventata così noiosa?»
Era una battuta, e lei lo sapeva, eppure il commento la ferì lo stesso. «Ci andremo domani, promesso.»
Rahul si alzò, con la stessa aria distaccata e distante che aveva ostentato a cena, e Sudha esitò. «I negozi saranno ancora aperti, immagino» disse, controllando l'orologio. E così assecondò il fratello: mentì ai genitori, dicendo che doveva fare un acquisto dell'ultimo minuto al centro commerciale, e Rahul si offrì di accompagnarla in macchina.
«Sei fantastica» le disse lui mentre si dirigevano verso la città. Abbassò il finestrino, riempiendo l'automobile d'aria gelida, e pescò dalla tasca un pacchetto di sigarette. Ne offrì una alla sorella dopo aver premuto l'accendino del cruscotto, ma lei scosse la testa e alzò il riscaldamento.

Jhumpa Lahiri, Solo Bontà 

mercoledì 19 aprile 2017

Un mondo reale


Alexandra aveva una piastra di registrazione in uno dei fienili che stava crollando. Lui l'aveva vista danzare sulle punte, con la gonna che svolazzava, mentre cantava fra sé. Gli erano venuti in mente i versi di una canzone: "Vi ho visti danzare in palestra, vi siete tolti le scarpe scalciandole..."
Su un vecchio tavolo teneva pagine dei suoi scritti; sparse tra i fogli c'erano fotografie che lei aveva scattato per illustrare le storie.
Aveva detto: "Se c'è un telefono nella storia, scatterò la foto di un telefono e la metterò accanto al paragrafo."
Nel fienile in rovina, lui aveva messo su un nastro e aveva ballato, se ballare era il verbo giusto per le sue sconnesse mosse artistiche, eseguite in pigiama e stivaloni.
Per questo quella mattina si sentiva acciaccato.

"Cè un mondo reale," aveva detto lo scienziato Richard Dawkings.
Harry si era ripetuto questa osservazione più volte, poi l'aveva trasmessa ad Alexandra come antidoto ai suoi sogni fantastici.
Lei aveva riso e aveva detto: "Forse c'è un mondo reale. Ma non ci vive nessuno."

Hanif Kureishi, Goodbye Mother

sabato 15 aprile 2017

Il soldato negro

Le braccia strette intorno alle ginocchia e il mento appoggiato sulle lunghe gambe, la "preda" alzò verso di me gli occhi arrossati in uno sguardo avvolgente e appiccicoso. Il sangue di tutto il corpo mi si riversò nelle orecchie e mi imporporai in viso. Distolsi lo sguardo e lo alzai su mio padre che, con le spalle al muro, puntava il fucile contro il soldato negro. A un suo cenno col mento, avanzai quasi a occhi chiusi e posai la cesta del cibo davanti al soldato negro.  Quando arretrai, gli organi interni mi si torsero per l'improvvisa paura, e dovetti controllare un moto di nausea. Il soldato negro fissò la cesta del cibo, mio padre la fissò, io la fissai. Un cane abbaiò in lontananza. Al di là del lucernaio la piazza era buia e silenziosa.
All'improvviso la cesta del cibo che si trovava sotto gli occhi del soldato negro cominciò a interessarmi. La guardavo attraverso gli occhi affamati del soldato negro: polpette di riso in quantità, pesce secco arrostito senza grassi, verdure bollite e latte di capra che riempiva una bottiglia sfaccettata dalla grossa imboccatura. Il soldato negro fissò a lungo il cestino, rimanendo nella stessa posizione nella quale si trovava quando ero entrato, finché io cominciai quasi a sentire i crampi della fame. E pensai che il soldato negro avrebbe disprezzato noi e la nostra povera cena che gli offrivamo e non avrebbe mai toccato quel cibo. Fui assalito da un senso di vergogna. Che sciagurata idea era stata quella di dare da mangiare a quel negro!
Ma, in modo del tutto inaspettato, il soldato negro stese il braccio incredibilmente lungo, afferrò con le grosse dita pelose la bottiglia, la avvicinò a sé e la odorò. Quindi la bottiglia dalla larga imboccatura si inclinò, le grosse labbra gommose del soldato negro si aprirono, una fila di denti grandi, bianchi, ben allineati come il congegno interno di una macchina si scoprì e il latte si riversò in quella bocca grande, rosata, scintillante. La gola del soldato negro emise un rumore simile a quando l'acqua mescolata a bolle entra in uno scarico; poi, dall'estremità delle labbra, gonfie come la polpa di un frutto toppo maturo stretta da un filo, il latte denso traboccò, scivolò lungo la gola scoperta, bagnò la camicia aperta e il petto e si condensò come grasso tremolante sulla pelle dura, bruna, rilucente. Con le labbra secche per l'emozione, scoprii che il latte di capra era un liquido meraviglioso.
Il soldato negro rimise rumorosamente la bottiglia nel cestino. Ormai dai suoi movimenti era scomparsa la primitiva esitazione. Le polpette di riso sembravano piccoli dolci nelle sue mani enormi; il pesce secco fu polverizzato, con tutta la testa e le lische, tra i suoi denti brillanti. In piedi accanto a mio padre, le spalle appoggiate alla parete, osservai ammirato quella potente masticazione. Il soldato negro era intento al suo pasto e non ci prestava attenzione, per cui io, soffocando i morsi della fame, ebbi l'opportunità di osservare la splendida "preda" di mio padre e degli adulti. E che splendida "preda" era davvero!

Kenzaburō Ōe, L'animale d'allevamento