lunedì 31 ottobre 2011

Camilla Lopez

«Scesi in camera mia, sbadigliai e mi gettai sul letto. In quel momento mi ricordai dell’armadio. Mi alzai e andai ad aprirlo. Tutto era a posto, gli abiti appesi agli ometti, le valigie sul ripiano. Non c’era la luce dentro, così acesi un fiammifero e guardai per terra. In un angolo vidi alcuni granelli scuri, simili a del caffè macinato grosso. Vi premetti sopra un dito e li assaggiai con la punta della lingua. Nessun dubbio, era marijuana. Una volta Benny Cohen me l’aveva fatta vedere, mettendomi in guardia dal prenderla. Adesso sapevo perché era stata qui. Bisogna chiudersi in un locale a prova d’aria per fumarla. Ecco perché gli scendiletto erano stati spostati; se n’era servita per tappare la fessura sotto la porta.
Camilla si drogava. Annusai l’aria all’interno dell’armadio e i vestiti appesi. Si sentiva ancora un lieve odore di granturco bruciato. Camilla, la drogata.
Non erano affari miei, ma lei era Camilla. Si era presa gioco di me, mi aveva imbrogliato e per giunta era innamorata di un altro, ma era bella, molto bella, e io avevo bisogno di lei. Decisi quindi di farli diventare affari miei e quella sera mi infilai nella sua auto ad aspettarla.
− E così ti droghi, − le dissi.
− Solo ogni tanto, − obiettò − Quando sono stanca.
− Devi smetterla.
− Non ne sono dipendente.
− Comunque la devi piantare.
Si strinse nelle spalle. − A me va bene così.
− Promettimi che la farai finita.
Si fece una croce in corrispondenza del cuore.
− Che io possa morire all’istante −. Ma stava parlando ad Arturo, non a Sammy, e io sapevo che non avrebbe mantenuto la promessa. Mise in moto, poi si avviò lungo Broadway fino all’Ottava, dove svoltò, diretta alla Central Avenue. − Dove andiamo? − le dissi.
− Adesso vedrai.
[…]
Ci fermammo davanti a casa sua, in Temple Street. Era un edificio cadente, una casa di legno riarsa dal sole e agonizzante. Lei viveva lì, in un appartamento. Dentro c’era un letto pieghevole, una radio e un divano azzurro, sporco e troppo imbottito. La moquette era impolverata e cosparsa di briciole e in un angolo buio era stato gettato un rotocalco. I piani dei mobili erano ingombri di bambole di pezza, ricordi di notti di festa passate in qualche località marina. Appoggiata a una parete c’era una bicicletta, le cui gomme sgonfie indicavano che non veniva usata da tempo. Agli altri angoli c’erano una canna da pesca con la lenza tutta aggrovigliata e un fucile polveroso. Sotto il divano una mazza da baseball e tra i cuscini della poltrona era stata abbandonata una Bibbia. Il letto era disfatto e le lenzuola sporche. Alle pareti qualche riproduzione, fra cui quella di un capo indiano che salutava il cielo.
Andai in cucina. Dal lavandino saliva un odore di immondizia e sui fornelli c’era una padella piena di grasso rappreso. Aprii il frigo: non conteneva altro che una scatola di latte condensato e un panetto di burro. Lo sportello del ghiaccio non si chiudeva, ma non c’era da stupirsi. Guardai nell’armadio dietro il letto e vidi un mucchio di abiti accatastati sul fondo. Le grucce erano tutte vuote, tranne una, da cui pendeva un cappello di paglia, ridicolmente solo.
Era qui che viveva! E c’ero anch’io ora, e camminavo dove aveva camminato lei, toccavo le cose che aveva toccato lei e respiravo la stessa aria. Me l’ero immaginata così la sua casa. Avrei potuto riconoscerla anche a occhi chiusi, perché era impregnata del suo odore e recava i segni della sua esistenza febbrile, che la rendevano parte di un progetto senza speranza. Un appartamento a Temple Street, una casa a Los Angeles. Lei apparteneva alle terre ondulate, ai deserti sconfinati, agli alti picchi, avrebbe devastato qualsiasi abitazione, fatto scempio di una minuscola prigione come quella. E io l’avevo sempre saputo. Questa era la sua casa, la sua rovina, il suo sogno infranto.
Si tolse il soprabito e si buttò sul divano, dove rimase a fissare con aria cupa la moquette da quattro soldi. Mi sedetti in poltrona, accesi una sigaretta e lasciai vagare lo sguardo sull’incavo della sua schiena e dei suoi fianchi. Il corridoio buio di quell’albergo, il negro sinistro, la stanza nera e i drogati, e ora questa ragazza che amava un uomo che la odiava. Faceva tutto parte dello stesso quadro perverso, tinto di affascinante sudiciume. Mezzanotte a Temple Street e, tra noi, una scatola di marijuana. Lei se ne stava sdraiata, con le lunghe dita che sfioravano la moquette, indifferente e stanca, come in attesa.
− Hai mai provato?
− No.
− Non ti farà male, per una volta.
− Ho detto di no.
Si rizzò a sedere e si mise a frugare nella borsa in cerca della marijuana. Estrasse anche un pacchetto di cartine. Ne prese una, la riempì, l’arrotolò, la leccò, poi la strinse alle estremità e me la porse. Ripetei che non la volevo, ma la presi.
Se ne preparò una per sé. Poi si alzò e chiuse la finestra, assicurandosi che la maniglia tenesse. Si diresse quindi verso il letto, tirò via la coperta e l’appoggiò contro il fondo della porta. A questo punto lanciò un’occhiata attenta tutt’attorno e mi guardò, sorridendo. − Ognuno reagisce a modo suo, − commentò. − Forse ti renderà triste e ti farà venire voglia di piangere.
− Figurati.
Si accese la sigaretta, avvicinandomi il fiammifero perché potessi accendere anch’io.
− Non dovrei farlo, − dissi.
− Aspira, − continuò lei. − Poi trattieni il fumo a lungo, finché sentirai male. Allora lascialo andare.
è roba pericolosa, − osservai.
Aspirai e trattenni il fumo a lungo, come mi aveva detto. Poi lo lasciai uscire. Lei si appoggiò allo schienale del divano e fece lo stesso. − A volte ce ne vogliono due.
− Sono sicuro che non mi farà nessun effetto.
Fumammo fino a bruciarci le dita. Poi fui io ad arrotolarne altre due. A metà della seconda la sentii arrivare. Era una sensazione di leggerezza, di distacco dalla terra, accompagnata dalla gioia di chi ha vinto lo spazio e da uno straordinario senso di potere. Scoppiai a ridere e aspirai di nuovo. Lei aveva sul viso il freddo languore della notte precedente, una specie di remota passionalità. Io ormai mi ero spinto oltre i limiti della stanza, oltre la mia stessa carne, e fluttuavo in un mondo di lune splendenti e stelle luminose. Ero invincibile. Dov’era finito quel tipo dalle cupe felicità, dallo strano coraggio? Io ero un altro. Presi la lampada che stava sul tavolo accanto a me, la fissai e la gettai per terra.
Andò in mille pezzi. Scoppiai a ridere. Lei udì lo schianto, si voltò a guardare e si unì alla mia risata. − Non c’è niente da ridere, − le dissi.
Scoppiò a ridere di nuovo. Mi alzai, attraversai la stanza e la presi tra le braccia. Non ero mai stato così forte, e lei ansimò, compressa dalla mia stretta e dal mio desiderio.
La guardai mentre si spogliava e, da qualche piega della mia memoria terrena, affiorò il ricordo di aver già visto quella espressione, oscillante tra obbedienza e paura. La associai alla baracca nel deserto e a Sammy, che le ordinava di andare a prendere la legna. Sapevo che prima o poi sarebbe successo. Lei mi scivolò tra le braccia e io risi delle sue lacrime.
Quando il sogno finì e con esso la sensazione di fluttuare verso astri che esplodevano, quando il mio sangue riprese a scorrere nei suoi canali consueti e la stanza ritrovò i suoi contorni sordidi, quando il mondo tornò a essere una landa desolata, non provai altro che il mio vecchio senso di colpa e la consapevolezza di avere compiuto una trasgressione. Avevo commesso un crimine, un peccato contro la vita. Mi sedetti accanto a lei, che era ancora sdraiata sul divano, e fissai la moquette. Fu allora che vidi i frammenti di vetro provenienti dalla lampada rotta. Quando mi alzai sentii il dolore, la pena acuta della carne dei miei piedi, oppressi dal mio stesso peso. Mi meritavo di soffrire. Mi infilai le scarpe e mi accorsi di avere i piedi tagliati. Poi uscii nel luminoso stupore della notte. Zoppicando, percorsi tutta la strada fino a casa. Mi dissi che non avrei mai più rivisto Camilla Lopez.»

John Fante, Chiedi alla polvere

Il mare


«Sentendomi male nell’anima, cercai di affrontare il problema del perdono. E chi avrebbe dovuto perdonarmi? Quale Dio? Quale Cristo? Erano miti in cui avevo creduto un tempo ma ora era fede che mi sembrava mito. Questo è l’oceano e questo è Arturo. L’oceano è reale e Arturo crede che lo sia. Poi volto le spalle al mare e non vedo altro che terra. Continuo a camminare e la terra si estende fino all’orizzonte. Un anno, cinque anni, dieci anni, senza vedere il mare. Cosa è accaduto al mare, mi dico? Il mare è qui, rispondo, nel magazzino della memoria. Il mare è un mito. Non è mai esistito.  E invece c’era! Lo so perché sono nato sulle sue sponde, mi sono bagnato nelle sue acque! Mi ha nutrito e mi ha dato pace, e le sue affascinanti distanze hanno alimentato i miei sogni! No, Arturo, il mare non è mai esistito. Non è che desiderio, il tuo, ma continua pure a camminare nel deserto. Non lo rivedrai mai più, il mare. È un mito in cui una volta hai creduto. Eppure sorrido, perché ho ancora il salino nel sangue, e la terra, con tutte le sue strade, non riuscirà a confondermi, perché il mio sangue tornerà alla sorgente.»


John Fante, Chiedi alla polvere


domenica 30 ottobre 2011

Animali rari

«Quest’animale abbonda nelle regioni settentrionali, è lungo quattro o cinque pollici, ed è dotato di un istinto curioso. Ha gli occhi come di cornalina e il pelo d’un nero lustro, serico, morbido come un cuscino. È amatissimo dell’inchiostro di Cina: quando uno scrive, lui si siede con una mano sull’altra e le gambe incrociate, aspetta che quello abbia finito, e si beve il resto dell’inchiostro. Poi torna a sedersi accoccolato e resta tranquillo.

WANG TA-HAI (1791)»


«Plinio attribuisce a Zarathustra, fondatore della religione che tuttora si professa dai parsi di Bombay, la composizione di due milioni di versi. Lo storico arabo Tabarì afferma che le sue opere complete, eternate da devoti calligrafi, coprivano dodicimila pelli di vacca. Alessandro di Macedonia le fece bruciare a Persepoli. Ma la fedele memoria dei sacerdoti poté salvare i testi fondamentali, che già nel IX secolo vennero integrati da un’opera enciclopedica, il Bundahish. In questo leggiamo:

Dell’asino a tre zampe si dice che sta in mezzo all’oceano e che ha tre crani sei occhi nove bocche due orecchie un corno. Il suo pelame è bianco, il suo nutrimento è spirituale, e tutto in lui è giusto. Dei sei occhi ne ha due al posto degli occhi, due in sommo al capo, e due sulla nuca; con la penetrazione dei sei occhi soggioga e distrugge.
Delle nove bocche ne ha tre nella testa, tre nella nuca e tre nei fianchi... Ciascuno dei suoi crani, posto al suolo, occuperebbe lo spazio di un gregge di mille pecore, e intorno potrebbero manovrare fino a mille cavalieri. Quanto alle orecchie, potrebbero contenere il Mazandaran1. Il corno, d’una materia simile all’oro, è cavo e con mille ramificazioni. Con questo corno vincerà e dissiperà tutte le corruzioni dei malvagi.

Dell’ambra si sa che è lo sterco dell’asino a tre zampe. Nella mitologia del Mazdeismo, questo mostro benefico è uno degli ausiliari di Ahura Mazdah (Ormuz), principio della vita, della luce e della verità.»

1 Provincia settentrionale della Persia.

J. L. Borges, Manuale di zoologia fantastica

Karenin


«Alle sei squillò la sveglia. Era il momento di Karenin. Si svegliava sempre molto prima di loro, ma non aveva il coraggio di disturbarli. Aspettava pazientemente il suono della sveglia che gli dava il diritto di saltare sul letto, di zampettare sui loro corpi e di dare musate. Per un po' avevano cercato di impedirglielo e lo cacciavano giù dal letto, ma lui era più testardo di loro e alla fine si era conquistato il propri diritti. Del resto negli ultimi tempi Tereza si era accorta che era piacevole ricevere il buon giorno da Karenin. Il momento del risveglio era una vera e propria gioia per lui: si meravigliava ingenuamente e stupidamente di essere ancora al mondo e ne provava una felicità sincera. Lei invece si svegliava con disgusto, col desiderio di prolungare la notte e di non aprire gli occhi.
Adesso Karenin era in ingresso e guardava in alto l'attaccapanni dov'era appeso il collare con il guinzaglio. Lei glielo mise al collo e si avviarono insieme verso il negozio. Lì comprò latte, pane, burro e come sempre un panino per lui. Sulla strada del ritorno, lui le trotterellava accanto, col panino in bocca. Si guardava attorno con orgoglio, soddisfattissimo di essere notato e indicato dalla gente.
A casa si allungò il panino con la soglia della camera aspettando che Tomàš si accorgesse di lui, si accovacciasse e cominciasse a ringhiare, facendo finta di volergli prendere il panino. Era così ogni giorno: per cinque minuti buoni si rincorrevano su è giù per l'appartamento fino a che Karenin non si infilava sotto al tavolo e divorava rapidamente il panino.»


Milan Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere


Il paese delle viti


«Aveva cinque anni e sedeva in grembo alla madre.
“Come sono venuto al mondo, mamma?”
“Non lo so, mio piccolo pascià”.
“E chi lo sa?”
“Tua nonna”.
“Nonna, come sono venuto al mondo?”
“Tutti i bambini armeni nascono, in qualche modo”.
“Ma come, nonna?”
“Ecco: le ragazze armene vengono partorite sotto il fico”.
“E i ragazzi armeni?”
“Sotto la vite”.
“Ma qui da noi non ci sono viti”.
“È vero” disse la nonna. “Questo è un paese di montagna e ci sono soltanto miseri campi”.
“E la mia vite dov’è?”
“Dietro ai monti curdi. Dall’altra parte, dove c’è il mare”.
“È lontano?”
“No, mio piccolo pascià. Due giorni con la carretta”.
“Dietro ai monti, là dove c’è il mare?”
“Sì, mio piccolo pascià”.
“È là il paese delle viti?”
“Sì. Là c’è il paese delle viti”.

“Quando nascono i bambini armeni, la madre di Dio sorride, e benedice tutti gli alberi di fico e tutte le viti, e tutti gli uccelli nella terra dell’Hayastan cinguettano con voci angeliche”.
“Raccontami com’è andata quando io venni al mondo”.
“Non lo so di preciso, mio piccolo angelo”.
“E chi lo sa di preciso?”
“Eh, chi può saperlo… la tua vite, naturalmente. Quella lo sa, mio piccolo angelo”.

E i suoi genitori salirono sulla carretta trainata dall’asino, per andarlo a prendere. Sua madre aveva una grossa pancia ed era al nono mese. Gemeva e gridava, perché le doglie erano già cominciate. Disse a suo padre: “Sprona l’asino, deve correre veloce. Perché il mio piccolo Wartan è lì sotto la vite e aspetta che andiamo a prenderlo”. E suo padre disse: “Spronerò l’asino. Ma un asino è sempre un asino. Nessun bastone, nemmeno il migliore, può farlo correre di più”.
L’asino trotterellava tranquillo attraverso la terra dei curdi. Le montagne diventavano sempre più alte, le loro cime toccavano le nuvole.
“Un asino è sempre un asino” disse suo padre.
“Non ce la faccio più”.
“Allora prega il nostro Salvatore”.
E sua madre pregò colui che è morto per tutti noi
“Gesù” mormorava “aiutami”. E sentì Gesù che diceva: “Ti aiuterò. Non sentirai più dolore”. E infatti i dolori cessavano. L’asino tirava tranquillo la carretta verso le nuvole. Le montagne erano così alte che si era presi dalla vertigine se si guardavano giù in basso i villaggi curdi seminomadi, o ancora più lontano, dove abitavano gli armeni, in fondo alla valle.
“Non ho più dolori” disse sua madre a suo padre. “Il Signore mi ha esaudita”.
“Allora va tutto bene” disse suo padre.
“Impiegheremo davvero due giorni per arrivare alle viti?”
“Sì, se l’asino non si ferma”.
“E credi che il nostro Wartan aspetterà tutto il tempo?”
“Aspetterà di sicuro”.

Ma durante il viaggio molto latte era affluito nei seni di sua madre. E i seni di gonfiarono e divennero sempre più grossi, fino a pendere come dei secchi pesanti.
“Il latte non può aspettare ancora” disse sua madre a suo padre.
“Il latte cerca la piccola bocca del nostro caro, piccolo Wartan” disse suo padre.
“Ma il nostro Wartan è sempre lì, sotto la vite?”
“È lì” rispose suo padre.
“Avremmo dovuto prendere con noi un cucciolo” disse sua madre. “Le zingare fanno così: quando hanno troppo latte si mettono al seno un cucciolo perché lo succhi”.
“Siamo quasi arrivati” disse suo padre. “E il latte intanto aspetterà”.
“Per quanto?”
“Finché prenderai fra le braccia il nostro piccolo Wartan e gli porgerai il seno”.
“Avrà certo un musetto affamato?”
“Sì” rispose suo padre.

Ma il latte non volle aspettare. Anche l’asino divenne testardo e rallentò sempre più il passo. Ogni tanto si fermava e non voleva proseguire. Ma il latte non poteva aspettare.

E a un tratto i grossi sacchi di latte di sua madre esplosero. E interi torrenti di latte si rovesciarono giù dai monti, spandendosi per le valli anatoliche. E il latte continuò a sgorgare. E i torrenti si trasformarono in fiumi. E i fiumi in mari. Tutto il mondo annegò nel latte di sua madre. Solo la vite sotto la quale giaceva il piccolo Wartan rimase all’asciutto. E il piccolo Wartan gridava e gridava. Gridava chiedendo il latte di sua madre che era ovunque, tranne che lì da lui.» 

Edgar Hilsenrath, La fiaba dell'ultimo pensiero

L’asino a tre zampe



 

"Amore psicotropo"


«I dibattiti veri e propri erano stati fissati per le cinque: avevo perciò un po’ di tempo per riprendere fiato, e risalii così al centesimo piano. Dopo aver mangiato delle insalate troppo salate mi era venuta una gran sete, ma il bar del mio piano era inesorabilmente occupato da contestatori e dinamitardi con le loro ragazze; io ne avevo avuto abbastanza della conversazione con il barbuto papista (o antipapista), per cui mi accontentai di un bicchiere d’acqua del rubinetto.
Non appena l’ebbi trangugiata, si spense la luce in bagno e in tutte e due le camere; il telefono, indipendentemente dal numero che formavo, mi metteva in comunicazione con una segreteria automatica che raccontava la favola di Cenerentola. Avrei voluto scendere nella hall ma l’ascensore non funzionava. Sentii un canto corale di contestatori che sparavano a tempo; lontano da me, mi auguravo. Cose di questo genere accadono anche negli alberghi di prima categoria, ma non per questo sono meno irritanti. In mezzo a tutto ciò, quello che più mi sorprese fu la mia reazione. Il mio umore, diventato piuttosto nero dopo la conversazione con il papaltiratore, migliorava di secondo in secondo. Procedendo a tastoni per la camera, rovesciai alcuni oggetti, ma sorrisi con indulgenza nell’oscurità, e perfino l’aver violentemente sbattuto il ginocchio contro una valigia non diminuì la mia benevolenza verso il mondo intero. Brancolando nel buio, riuscii a trovare sul comodino i resti del cibo che avevo consumato in camera, fra la colazione e il pranzo, e infilai nel burro avanzato un pezzo di carta strappato da una cartella congressuale; quando lo accesi con un fiammifero ottenni, in verità, una gran folata di fumo, ma anche una debole fiammella, al cui chiarore mi adagiai in poltrona; avevo ancora davanti a me più di due ore di tempo libero, anche se una avrei dovuto impiegarla per scendere le scale (l’ascensore non funzionava). La mia serenità spirituale attraversò ulteriori fluttuazioni e cambiamenti che osservai con vivo interesse. Tutto mi appariva allegro, addirittura eccezionale. Potevo enumerare al volo una serie di motivi per spiegare lo stato d’animo in cui mi trovavo; fra tutte, la cosa più sublime mi sembrava l’appartamento dell’Hilton: immerso in un’impenetrabile oscurità, pieno di odore di bruciato e di fuliggine del pezzo di burro, tagliato fuori dal mondo, con il telefono che raccontava favole, mi appariva come uno dei posti più incantevole della terra. Avvertivo un prepotente desiderio di accarezzare qualcuno, non aveva importanza chi, o perlomeno stringere calorosamente la mano del prossimo, con uno sguardo profondo e pieno d’affetto.
Avrei baciato il mio più accanito nemico armato di doppietta. Il burro, struggendosi, sfrigolando e fumando si spegneva a poco a poco: il fatto che “sfrigolando” faccia rima con “fumando” mi fece ridere di gusto, sebbene, nel tentativo di riaccendere lo stoppino di carta, mi fossi ustionato tre dita. La fiammella del burro bruciava appena e io canterellavo a mezza voce arie di vecchie operette, senza nemmeno accorgermi che l’odore acre del fumo mi stava soffocando e le lacrime mi scendevano, dagli occhi arrossati, giù per le gote. Alzandomi, caddi lungo disteso, inciampando sulla valigia che si trovava sul pavimento, ma il bernoccolo, grosso come un uovo, che mi spuntò sulla fronte, non fece che migliorare il mio umore (per quanto fosse ancora possibile migliorarlo). Continuavo a ridere, nonostante quel fumo scuro e puzzolente mi facesse soffocare; nulla poteva intaccare il mio gioioso entusiasmo. Mi misi a letto, ancora disfatto dal mattino, sebbene già fosse pomeriggio inoltrato; alla servitù, che dava prova di tali sbadataggini, pensai come ai miei figli: non mi venivano in mente nient’altro che teneri vezzeggiativi e soavi paroline. Mi venne in mente che, se fossi morto soffocato, sarebbe stato il più divertente, il più simpatico genere di morte che ci si possa augurare. Questa constatazione era a tal punto incompatibile con tutta quanta la mia indole che ebbe su di me l’effetto di una sveglia. Nel mio animo avvenne una sorprendente scissione. Ero ancora colmo di una pacata comprensione, una sorta di universale benevolenza verso tutto ciò che esiste; avevo le mani così avide di accarezzare qualcuno che, in mancanza di altre persone, presi a lisciarmi delicatamente le guance e a tirarmi per gioco le orecchie; posi anche ripetutamente la mano destra alla sinistra per scambiare una vigorosa stretta. Persino le mie gambe fremevano dal desiderio di carezze. Con tutto ciò nel profondo del mio essere si accesero dei segnali di allarme: “Qualcosa non va!” gridava in me una voce lontana, debole. “Fa’ attenzione, Ijon, sii vigile, in guardia! Questa serenità non è degna di fede! Agisci, presto! Via! Avanti! Non stare in panciolle come Onassis, inondato di lacrime per il fumo e la fuliggine, con la fronte bernoccoluta, sprofondato in una benevolenza universale! È il sintomo di un nero tradimento!”. Nonostante queste voci, non mossi neppure un dito. Avevo la gola arida. Il cuore mi batteva forte da tempo, ma me lo spiegavo con l’amore universale destatosi all’improvviso. Andai in bagno, tanto tremenda era la mia sete; pensai all’insalata troppo salata del banchetto, o meglio del cocktail in piedi, poi, per prova, mi immaginai i signori J.W., H.C.M, M.W. e altri dei miei peggiori nemici; constati che, oltre al desiderio di una cordiale stretta di mano, di un caloroso bacio e dello scambio di parole e pensieri gentili, non provavo altri impulsi nei loro confronti. Questo era davvero allarmante. Con una mano sul pomello di nichel del rubinetto, tenendo nell’altra il bicchiere vuoto, raggelai. Lentamente lo riempii d’acqua e, contorcendo la bocca in una strana smorfia – vidi nello specchio le contrazioni dei lineamenti del viso – vuotai l’acqua nel lavandino.
L’acqua del rubinetto. Ma certo! Appena finito di berla erano avvenuti in me dei cambiamenti. Cosa mai poteva esserci dentro? Un veleno? Non avevo ancora sentito parlare di un’acqua che... Eppure, un momento! Sono un abbonato permanete della stampa scientifica. Ultimamente su Science News erano apparsi articoli su nuove sostanze psicotrope del gruppo dei cosiddetti benignatori, che inducono gioia e serenità artificiali. Ma sì! Avevo quell’articolo davanti agli occhi. Edonidol, benefattorina, enfasin, euforiasol, felicitol, altruisan, buonacarezzina e tutta la gamma dei derivati! Attraverso la reazione degli idruforzuri con le ammide, sintetizzate dallo stesso gruppo biochimico, il furiasol, pazzina, la sadistizzina, la flagellino, l’aggressium, il frustrandol, il colleran e molti altri preparati che provocano la collera (indicono cioè a picchiare e malmenare, nell’ambiente circostante, sia le cose inanimate che le cose viventi; l’effetto più decisivo dovevano averlo il calcinol e l’azzuffina).
Lo squillo del telefono interruppe questi pensieri; contemporaneamente tornò la luce. Era il portiere dell’albergo che, con voce umile e in tono solenne, si scusò per il guasto che era già stato riparato. Aprii la porta sul corridoio per dare aria alla stanza; nell’albergo, per quel che potevo vedere, regnava la calma. Intossicato, ancora pieno del desiderio di impartire benedizioni ed elargire carezze, chiusi la porta di scatto, mi sedetti in mezzo alla stanza e cominciai a lottare con me stesso. È incredibilmente difficile descrivere il mio stato d’animo in quel momento. Non si deve, comunque, credere che fossi lucido e razionale come può sembrare. Ogni riflessione critica era immersa nel miele e sguazzava fino alla paralisi in una specie di massa cremosa di ebete autoappagamento; il pensiero fluiva come uno sciroppo di sentimenti positivi e il mio animo pareva sprofondare nella più dolce delle paludi possibili, annegando in oli di rose e in glasse. Con forza mi costrinsi a pensare a quello che più mi disgustava: alla canaglia barbuta con la doppietta antipapista, alle dissolutezze degli editori della Letteratura Liberata e alloro banchetto babilonico-sodomita, ai signori W.C., J.C.M., A.K. e a tante altre canaglie e furfanti. Dovetti constatare ancora una volta, con sgomento, che amavo tutti, che perdonavo tutto a tutti, anzi, di più: immediatamente, proliferando come funghi, scaturirono dai miei pensieri argomenti in difesa di ogni male e di ogni bruttura. Un tempestoso uragano di amore fraterno mi dilaniava la testa; soprattutto mi faceva star male ciò che meglio si può esprimere con le parole “spinta a fare del bene”. Invece che ai veleni e agli psicotropi, pensavo avidamente alle vedove e alle orfanelle, alle quali avrei dato protezione con piacere; provavo crescente stupore per il fatto che, fino ad ora, avessi dedicato loro così poca attenzione. E che dire dei poveri, affamati, miserabili, gran Dio! Mi sorpresi in ginocchio sulla valigia, a gettare sul pavimento il suo contenuto, alla ricerca delle cose migliori da offrire ai bisognosi. E di nuovo deboli voci d’allarme risuonarono nel mio subconscio: “Attenzione! Non intontirti! Lotta! Falcia! Calcia! Salvati!” gridava qualcosa dentro di me stancamente, ma con disperazione. Era atrocemente lacerato. Percepivo la potente carica di un imperativo categorico, che mi impediva di far del male perfino a una mosca. Che peccato, pensai, che all’Hilton non ci siano topi e nemmeno ragni: come li avrei accarezzati, amati! Mosche, cimici, topi, zanzare, pidocchi, care creature del buon Dio! Benedissi di sfuggita il tavolo, la lampada e le mie gambe. Ma i residui di lucidità non mi avevano ancora abbandonato, per cui, improvvisamente, colpii la sinistra con la mano destra, che stava impartendo la benedizione, fino a contorcermi dal dolore. Non era male! Chi lo sa, poteva anche essere salvifico! Per fortuna la spinta a fare del bene aveva un carattere centrifugo: era agli altri, più che a me, che auguravo del bene. Riuscii ad assestarmi un paio di schiaffi, fino a torcermi la spina dorsale e a vedere le stelle. Bene, avanti così! Quando il viso mi si irrigidì, mi misi a tirar calci alle caviglie. Per fortuna avevo le scarpe pesanti, con la suola tremendamente dura. Dopo il trattamento a base di calci furiosi per un attimo mi sentii meglio, cioè peggio. Cautamente provai a pensare che cosa sarebbe successo se avessi dato un calcio al signor J.C.A. Non era più del tutto impossibile. Entrambe le caviglie i facevano un male del diavolo e, probabilmente grazie all’automaltrattamento, ero in grado di immaginarmi persino un pugno assestato al signor M.W. Senza badare al tremendo dolore, scalciai ancora. Tutto ciò che era a punta andava bene; usai una forchetta e poi degli spilli, tolti da una camicia non ancora usata. Non andò tutto liscio, anzi, esitai; dopo un paio di minuti ero ancora pronto a infiammarmi per una buona causa: di nuovo si sprigionò in me un geyser della più alta generosità e della più virtuosa passione. Ormai non avevo più dubbi: c’era qualcosa nell’acqua del rubinetto. Ma che sciocco! Da molto tempo avevo in valigia un sonnifero, mai usato: mi metteva di umore cupo e aggressivo, e proprio per questo non lo avevo mai preso: fortuna che non me ne ero sbarazzato! Inghiottii la compressa, masticandola con il burro che sapeva di fumo (evitavo l’acqua come la peste), poi trangugiai con sforzo due compresse di caffeina al fine di controbilanciare gli effetti del sonnifero; sedetti sul divano e attesi con paura, ma anche con impeti di amore fraterno, il risultato della lotta chimica nel mio organismo. L’amore continuava a farmi violenza, ero rabbonito come mai lo ero stato in vita mia. Pareva però che i preparati chimici cattivi avessero cominciato a prendere il sopravvento su quelli buoni. Ero pronto a continuare le buone azioni, ma con maggiore discernimento. A dire il vero avrei preferito essere l’ultimo dei furfanti, almeno per un po’ di tempo. Un quarto d’ora dopo ero tornato in me.»


Stanislaw Lem, Il congresso di futurologia


Cézanne

«Balzac descrive nella Pelle di Zigrino una "tovaglia bianca come uno strato di neve caduta di fresco e sulla quale s’elevano simmetricamente i coperti coronati di panini biondi. "Per tutta la mia giovinezza" diceva Cézanne "ho voluto dipingere questo, quella tovaglia di neve fresca… Ormai so che bisogna limitarsi a voler dipingere il 's’elevano simmetricamente i coperti', e il 'di panini biondi'. Se dipingo 'coronati', sono fregato, capite? E se davvero equilibro e sfumo i coperti e i panini come dal vero, siate sicuri che le corone, la neve e tutto il tremito vi saranno."»

Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne

Il re dei camosci

«Un rifugio del re dei camosci era sotto un mugo, scavato da lui stesso con le corna e le zampe. Era un’arte sconosciuta al branco, lui l’aveva imparata per nascondersi. La sua specie sapeva grattare la neve con gli zoccoli per cercare un po’ d’erba sbiadita. Lui aveva imparato a smuovere la terra.
Si era infilato sotto un mugo la prima volta per sfuggire all’odore di un uomo vicino. Quando era passato, aveva tolto dei sassi con le zampe e si era ricavato un buon riparo. Sotto il tetto di rami alzava il muso di notte verso l’alto del cielo, un ghiaione di sassi illuminati. A occhi larghi e respiro fumante fissava le costellazioni, in cui gli uomini stravedono figure di animali, l’aquila, l’orsa, lo scorpione, il toro.
Lui ci vedeva i frantumi staccati dai fulmini e i fiocchi di neve sopra il pelo nero di sua madre, il giorno che era fuggito da lei con la sorella, lontano dal suo corpo abbattuto.
D’estate le stelle cadevano a briciole, ardevano in volo spegnendosi sui prati. Allora andava da quelle cadute vicino, a leccarle. Il re assaggiava il sale delle stelle.»

Erri De Luca, Il peso della farfalla

Il compianto Gil

«Nel dipartirsi da questa per passare a miglior vita, il compianto Gil, lo smidollato privo di volontà di cui sopra, lasciò la famiglia in gravi ristrettezze, in situazione precaria. Nel suo caso l'espressione "partì da questa per passare a miglior vita" non era semplicemente una frase fatta, un luogo comune, ma la pura verità. Qualsiasi cosa l'aspettasse nel mistero dell'Aldilà: un paradiso di luci, musiche, angeli radiosi; un tenebroso inferno con pentoloni in ebollizione, o un umido limbo; un vagabondare senza fine negli spazi siderali, o il nulla, il non-essere e basta, qualsiasi cosa avrebbe rappresentato un notevole miglioramento, a paragone della vita con dona Rozilda.»

Jorge Amado, Dona Flor e i suoi due mariti