giovedì 29 dicembre 2011

L'avventura di due sposi

«L'operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte quello che finisce alle sei. Per rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella bella stagione, in tram nei mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette, cioè alle volte un po' prima alle volte un po' dopo che suonasse la sveglia della moglie, Elide.
Spesso i due rumori: il suono della sveglia e il passo di lui che entrava si sovrapponevano nella mente di Elide, raggiungendola in fondo al sonno, sonno compatto della mattina presto che lei cercava di spremere ancora per qualche secondo col viso affondato nel guanciale. Poi si tirava su dal letto di strappo e già infilava le braccia alla cieca nella vestaglia, coi capelli sugli occhi. Gli appariva così, in cucina, dove Arturo stava tirando fuori i recipienti vuoti dalla borsa che si portava con sé sul lavoro: il portavivande, il termos, e li posava sull'acquaio. Aveva già acceso il fornello e aveva messo su il caffè. Appena lui la guardava, a Elide veniva da passarsi una mano sui capelli, da spalancare a forza gli occhi, come se ogni volta si vergognasse un po' di questa prima immagine che il marito aveva di lei entrando in casa, sempre così in disordine con la faccia mezza addormentata. Quando due hanno dormito insieme è un'altra cosa, ci si ritrova al mattino riaffiorare entrambi dallo stesso sonno, si è pari.
Alle volte invece era lui che entrava in camera a destarla, con la tazzina del caffè, un minuto prima che la sveglia suonasse; allora tutto era più naturale, la smorfia per uscire dal sonno prendeva una specie di dolcezza pigra, le braccia che s'alzavano per stirarsi, nude, finivano per cingere il collo di lui. S'abbracciavano. Arturo aveva indosso il giaccone impermeabile; a sentirselo vicino lei capiva il tempo che faceva: se pioveva o faceva nebbia o c'era neve, a secondo di com'era umido e freddo. Ma gli diceva lo stesso: - Che tempo fa? - e lui attaccava il suo solito brontolamento mezzo ironico, passando in rassegna gli inconvenienti che gli erano occorsi, cominciando dalla fine: il percorso in bici, il tempo trovato uscendo di fabbrica, diverso da quello di quando c'era entrato la sera prima, e le grane sul lavoro, le voci che correvano nel reparto, e così via.
A quell'ora, la casa era sempre poco scaldata, ma Elide s'era tutta spogliata, un po' rabbrividendo, e si lavava, nello stanzino da bagno. Dietro veniva lui, più con calma, si spogliava e si lavava anche lui, lentamente, si toglieva di dosso la polvere e l'unto dell'officina. Così stando tutti e due intorno allo stesso lavabo, mezzo nudi, un po' intirizziti, ogni tanto dandosi delle spinte, togliendosi di mano il sapone, il dentifricio, e continuando a dire le cose che avevano da dirsi, veniva il momento della confidenza, e alle volte, magari aiutandosi a vicenda a strofinarsi la schiena, s'insinuava una carezza, e si trovavano abbracciati.
Ma tutt'a un tratto Elide: Dio! Che ora è già! e correva a infilarsi il reggicalze, la gonna, tutto in fretta, in piedi, e con la spazzola già andava su e giù per i capelli, e sporgeva il viso allo specchio del comò, con le mollette strette tra le labbra. Arturo le veniva dietro, aveva acceso una sigaretta, e la guardava stando in piedi, fumando, e ogni volta pareva un po' impacciato, di dover stare lì senza poter fare nulla. Elide era pronta, infilava il cappotto nel corridoio si davano un bacio, apriva la porta e già la si sentiva correre giù per le scale.
Arturo restava solo. Seguiva il rumore dei tacchi di Elide giù per i gradini, e quando non la sentiva più continuava a seguirla col pensiero, quel trotterellare veloce per il cortile, il portone, il marciapiede, fino alla fermata del tram. Il tram lo sentiva bene, invece: stridere, fermarsi, e lo sbattere della pedana a ogni persona che saliva. "Ecco, l'ha preso", pensava, e vedeva sua moglie aggrappata in mezzo alla folla d'operai e operaie sull'"undici", che la portava in fabbrica come tutti i giorni. Spegneva la cicca, chiudeva gli sportelli alla finestra, faceva buio, entrava in letto.
Il letto era come l'aveva lasciato Elide alzandosi, ma dalla parte sua, di Arturo, era quasi intatto, come fosse stato rifatto allora. Lui si coricava dalla propria parte, per bene, ma dopo allungava una gamba in là, dov'era rimasto il calore di sua moglie, poi ci allungava anche l'altra gamba, e così a poco a poco si spostava tutto dalla parte di Elide, in quella nicchia di tepore che conservava ancora la forma del corpo di lei, e affondava il viso nel suo guanciale, nel suo profumo, e s'addormentava.
Quando Elide tornava, alla sera, Arturo già da un po' girava per le stanze: aveva acceso la stufa, messo qualcosa a cuocere. Certi lavori li faceva lui, in quelle ore prima di cena, come rifare il letto, spazzare un po', anche mettere a bagno la roba da lavare. Elide poi trovava tutto malfatto, ma lui a dir la verità non ci metteva nessun impegno in più: quello che lui faceva era solo una specie di rituale per aspettare lei, quasi un venirle incontro pur restando tra le pareti di casa, mentre fuori s'accendevano le luci e lei passava per le botteghe in mezzo a quell'animazione fuori tempo dei quartieri dove ci sono tante donne che fanno la spesa alla sera.
Alla fine sentiva il passo per la scala, tutto diverso da quello della mattina, adesso appesantito, perché Elide saliva stanca dalla giornata di lavoro e carica della spesa. Arturo usciva sul pianerottolo, le prendeva di mano la spesa, entravano parlando. Lei si buttava su una sedia in cucina, senza togliersi il cappotto, intanto che lui levava la roba dalla spesa. Poi: - Su, diamoci un addrizzo, - lei diceva, e s'alzava, si toglieva il cappotto, si metteva in veste da casa. Cominciavano a preparare da mangiare: cena per tutt'e due poi la merenda che si portava lui in fabbrica per l'intervallo dell'una di notte, la colazione che doveva portarsi in fabbrica lei l'indomani, e quella da lasciare pronta per quando lui l'indomani si sarebbe svegliato.
Lei un po' sfaccendava un po' si sedeva sulla seggiola di paglia e diceva a lui cosa doveva fare. Lui invece era l'ora in cui era riposato, si dava attorno, anzi voleva far tutto lui, ma sempre un po' distratto, con la testa già ad altro. In quei momenti lì, alle volte arrivavano sul punto di urtarsi, di dirsi qualche parola brutta, perché lei lo avrebbe voluto più attento a quello che faceva, che ci mettesse più impegno. Oppure che fosse più attaccato a lei, le stesse più vicino, le desse più consolazione. Invece lui, dopo il primo entusiasmo perché lei era tornata, stava già con la testa fuori di casa, fissato nel pensiero di far presto perché doveva andare.
Apparecchiata tavola, messa tutta la roba pronta a portata di mano per non doversi più alzare, allora c'era il momento dello struggimento che li pigliava tutti e due d'avere così poco tempo per stare insieme, e quasi non riuscivano a portarsi il cucchiaio alla bocca, dalla voglia che avevano di star li a tenersi per mano.
Ma non era ancora passato tutto il caffè e già lui era dietro la bicicletta a vedere se ogni cosa era in ordine. S'abbracciavano. Arturo sembrava che solo, allora capisse com'era morbida e tiepida la sua sposa. Ma si caricava sulla spalla la canna della bici e scendeva attento le scale.
Elide lavava i piatti, riguardava la casa da cima a fondo, le cose che aveva fatto il marito, scuotendo il capo. Ora lui correva le strade buie, tra i radi fanali, forse era già dopo il gasometro. Elide andava a letto, spegneva la luce. Dalla propria parte, coricata, strisciava un piede verso il posto di suo marito, per cercare il calore di lui, ma ogni volta s'accorgeva che dove dormiva lei era più caldo, segno che anche Arturo aveva dormito lì, e ne provava una grande tenerezza.»

Italo Calvino, Gli amori difficili
 

mercoledì 28 dicembre 2011

Una vita semplice

Ad un certo punto, del tutto improvviso, dopo una vita fissata a terra col cemento, avverti senza motivi fondati, che si sta abbattendo la fine di un periodo. Dagli e dagli, poi lo capisci, che il gesto si fa meccanico, la battaglia stanca. Gli uomini limitrofi alla tua esistenza, amici e conoscenti, prima erano uomini, ora sono comparse diafane. Li attraversi come se si fendesse l'aria. Sono trasparenti.
Hanno perso, ai tuoi occhi, motivo.
Le esperienze, che un tempo ti portavano una gioia, ora si fanno noia e delusione.
L'esistenza ti sfugge di mano per il semplice motivo che l'hai vissuta già tutta quanta.
Allo stesso tempo, però, ti butti davanti allo specchio e vedi che sei ancora vivo, non hai ancora cent'anni, ma avverti un peso totalitario di come se ne avessi cinquecento di anni. Non sai cosa fare. È una brutta febbre. Ci vorrebbero intelletti lucidi e sorvegliati, allora, per operar decisioni. Ma vi state rivolgendo alla persona sbagliata.
Ci ho il luna park in testa come nella domenica all'ora di punta, miliardi di bambini vivacissimi che mi fanno casino nella testa e residui a quintali di coca assunta senza pause che non sono riuscito a smaltire di nessuna maniera. Neanche col lavaggio del sangue che mi feci a Losanna spendendo una cifra inaudita che se ci penso, anche se è notorio che non sono un tirchio, non posso non rammentare come uno degli episodi più dolorosi della mia vita. Forse mi tradì il gioco delle aspettative. Credevo che dopo il lavaggio del sangue avrei potuto, allegro e spensierato come Heidi, ricominciare come dalla prima volta che mi feci i primi quattro grammi tutti insieme. Avevo venti anni ed ero uno splendore di giovanotto. Invece manco col cazzo che era così.
D'altronde, il medico svizzero me lo aveva detto senza giri di parole e termini scientifici. Con una sincerità elvetica sospetta, mi aveva puntato un indice longilineo assistito dalle seguenti:
"Amico mio, voi vi dovete dare una calmata vera. Voi state messo peggio di tutte le rock band inglesi messe insieme che vengono qui un mese sì e un mese no".
Questo mi disse, dandomi sinistramente del voi. Ma io pensai che si trattasse del consueto allarmismo pessimistico della medicina occidentale. Prevenzione esagerata e terroristica, mi raccontai.
Col cazzo. Aveva ragione lui. Uscii da lì che mi sentivo tale e quale a prima. Forse pure un poco peggio. Cioè una pezza col Vim liquido da sopra. Pesante, duro e spossato come la mozzarella andata a male. Il sangue, anche se fondamentale, ha poco a che fare con il tuo stato d'animo. Lavorano in reparti separati.
Insomma, alla luce del quadro clinico e psicologico del sottoscritto, come pretendere un'organizzazione razionale dei fatti e del pensiero da me. Follia o ambizione smodata. Siamo d'accordo almeno su questo? Eppure lo sento, sta venendo su proprio come uno di quei mal di denti che la prendono alla lontanissima prima di dirti: ti farò lentamente un culo di dolore così, grande come una villa, insomma lo sento che sta venendo su lentamente questa sensazione che qualcosa sta finendo.
Sono al capolinea di qualcosa. Intendiamoci, non sto facendo il tragico, non parlo di morte e malattie. Parlo più terra terra. Ma persiste un'aria di fine. Una linea di malinconia mi sta anche attraversando dopo così tanto tempo che non può passare inosservata. La malinconia mi sta informando di qualcosa, ma non so di che.
Tutto questo lo imbastisco mentre faccio ritorno a piedi da Rituccia a casa. Sono le dieci, non fa freddo. La città esiste per gli altri sicuramente ma non per me. Anche questa è un'avvisaglia. Luoghi che conosco in tutti i loro battiti che, di colpo, mi sono estranei o, peggio, indifferenti. Ma che cazzo sta succedendo, Tony? Ho un po' di paura, adesso, ma una paura leggera, che non mi agita. Una paura decorosa e sopportabile. Che svolazza. Una di quelle paure che, questo lo so, se la prendi per il verso giusto si può tramutare in una riscoperta della vita. Un volano nuovo.
Un parcheggio ricolmo di tassisti. Mi riconoscono tutti. Si sbracciano, mi elargiscono sorrisi e icastiche battute attraverso dentature discutibili, pronti ad offrirmi il passaggio anche gratuitamente. Dico no senza cattiveria, voglio continuare a stare sui miei piedi. Voglio l'appuntamento pacato coi miei pensieri lenti. Come uno qualsiasi. Sì, come uno qualsiasi. Svuotato e trascinato. Quei due tiri sulle scale non mi hanno fatto nulla, mi hanno lasciato anestetizzata la mandibola, ma tutto qua.
Fino a dieci minuti fa non volevo soltanto la mia vita, ma anche quella di tutti gli altri. Un'ingordigia solenne, per immergermi fino in fondo, nel dolore e nel piacere, nell'ordine e nella confusione. Volevo la vita di tutti gli altri, un paguro che deve fare punteggio. Adesso si barcolla in una mediocrità che, però, non riesco più a disprezzare. Ora sono ridotto al lumicino di me stesso. Ma sono ancora vivo. Che non è poco.
Napoli, le urla, i miei simili, odiati e amati fino a pochi istanti fa, tutto mi appare distante. Come un acquario che il proprietario non pulisce da anni. Sto perdendo qualcosa di naturale, qualcosa che non ti insegna nessuno, ma che semplicemente si produce, sto perdendo il senso dell'appartenenza. Ecco cosa cazzo sta succedendo.
Finalmente mi si schiarisce qualcosa sotto gli altipiani di polvere bianca che tengo in testa. Ho individuato il problema e nel preciso momento in cui l'ho messo a fuoco mi attraversa una vertigine sensazionale. Un mondo nuovo. Si dischiudono, di colpo, oceani di prospettive. Non c'è ansia in questa vertigine, non c'è preoccupazione. Le cose si fanno, come poche volte nella stronza mia esistenza, elementari. Una successione logica pullula adesso. Hai perso il senso d'appartenenza con tutto ciò che era decisivo? Benissimo, è ora di trovarne un altro. Un altro luogo, altre facce, un'altra vita. Quattro lire da parte ci sono. Le avevo messe in banca per rifarmi i denti e un lifting. Pazienza, ponti e capsule aspetteranno ancora un poco. Non spaccheremo più le noci coi gusci e guarderemo circospetti tutto il torrone che mi piace tanto. Che cosa sono i denti nuovi e un viso liscio rispetto alla possibilità chiara ed esaltante di puntare un dito sul mappamondo e dire: vaffanculo il prima, ora me ne vado proprio qui. E tutto sarà una cosa nuova. Gesù, mi sta assalendo un'eccitazione infantile, come quando mio zio mi portò a pesca la prima volta sul canale di Procida insieme agli amici suoi che me li ricordo tale e quale che qualunque cosa dicessero era una cosa che aveva il sapore della simpatia e della risata. Un bambino non ha mai chiesto niente di più di una risata insieme agli adulti. Ti senti un altro. Ti senti compiuto.
Questo vuole il bambino. La compiutezza prima del previsto. Vantaggio asciutto sugli altri bambini. Le gare dei bambini disconoscono la tregua. Sono a cicli continui, come i turni in ospedale.
Sì, Tony vostro aveva bisogno di una pausa e non l'aveva capito.
Come nella matematica, perdi il senso d'appartenenza e guadagni il risultato alla fine dell'esercizio. Un risultato chiamato libertà.
Replichi la sceneggiata del vitalismo fino alla nausea e poi la nausea della mediocrità ti aggredisce pori e cosce e te lo ricorda senza misteri: sei come tutti gli altri, né più né meno, hai voglia a sbatterti. Hai voglia ad ostentare i comportamenti atipici. Menala di qua e menala di là, le biografie diverse non ti hanno mai autorizzato ad essere diverso. Questo maledetto comunismo del corpo umano.
Cambiano i numeri di anni che vivi, le modalità e i dialetti, ma c'è quel punto alla fine dell'imbuto nel quale confluiscono tutti. L'imbuto che spernacchiando ti dice: ma chi ti credevi di essere, grandissima faccia di cazzo! Vale per me, per noi, per voi, per loro, per Gesù Cristo e tutti gli apostoli.
Costeggio il rione Sirignano. E mi sfugge un'occhiata languida a quel palazzo monumentale. Da mo' che è morta la baronessa Fonseca. Da mo' che è morta quella Napoli rattoppata degli anni cinquanta. Da mo' che è morto Pagodina, il ragazzetto che ero, tutto proteso, educato e pieno d'intensità. Sì. Sì. Da mo' che ci sarebbero gli estremi per cominciare un grande pianto di rimpianti e nostalgie e poi non finire più.
Mai più. Calmo calmo Tony, non ti scuotere troppo, che pare che c'è ancora il tempo a disposizione.
Stiamo a vedere.
Scavalco piazza Sannazaro, uno slalom di automobili. Le nuvole si abbassano, senza preavviso, all'altezza del secondo piano dei palazzi. Come se stessimo sulla montagna alta. Un vento di mare a folate irregolari innalza carte oleose di arancini pieni d'olio e fa rotolare milioni di lattine di Coca-Cola e Fanta che poi, col tempo, avrà meno successo, ma nel frattempo quello che ha inventato la Fanta se ne sta col culo nella Jacuzzi. Non pensate a un miliardario texano. Quello che ha inventato la Fanta è napoletano. Io l'ho conosciuto una volta, volle che cantassi al battesimo del figlio. A tavola c'erano altre bevande, costose e inarrivabili. Ci ha i miliardi pure sotto ai rubinetti del bidet, l'aveva chiamata Fantasia, la cazzo della bibita, subito dopo la guerra. Poi trasformata in Fanta dagli americani che se la sono comprata. Sai che cazzo gliene fotte che gli hanno cambiato il nome. Lui ha inventato la ricetta e il copyright e intasca nevicate di banconote come un jukebox che non si rompe mai. Ma comunque.
Tutto rotola. Il vento interrompe la pigrizia degli alberi che ora si agitano come una compagnia di balletto, liberando nell'aria odori d'inverno che surclassano i tubi di scappamento. Mi faccio di smog e pollini. Il mondo si avvicina di nuovo a me e non lo conoscevo così. Qualunque cosa mi sta succedendo, comincia a piacermi. Ve lo giuro su Albertino, su mia figlia, ve lo giuro su chiunque, passeggio, sento il vento e gli odori degli alberi, e forse sta cominciando a piovere e io ho la netta, nettissima sensazione che mi sta piovendo addosso un nuovo senso della vita. Una folgorazione.
Una tempesta di semplicità, proprio quello che mi ci voleva. Come mia madre.
Un'altra folgorazione. Ammanettatemi. Quando dico mia madre, io lo so, sono schiavo. Ammanettatemi, se dovessi sfociare nella retorica più prevedibile, nel sentimentalismo più rosa e stucchevole.
Sono al riparo di niente. Io lo so. Perché mia madre. Perché, ancora, e ancora, mia madre. Insomma, l'amore non se lo sono certo inventati i cantautori. Poi lo hanno trasferito con sapienza commerciale sulla coppia moderna perché esso produceva un fatturato molteplice, agguantava il contingente, ma si stava parlando d'altro. Si stava parlando di tutte le nostre madri, in quelle canzonette. L'unico amore riconoscibile, che tocchi con tutto il corpo perché ci stai tutto dentro nella pancia. L'amore contenibile. L'unico amore che non è intercambiabile. Ecco qua. Quest'è.
Ma quando è successo? Quando, precisamente, si è consumata la spaccatura insanabile? Non possiamo continuare a far finta di niente e a non domandarcelo.
Perché è successa una cosa enorme e dolorosa. Perché, quando riguardo quelle sette foto di mia madre, provo una nostalgia così mostruosa che vorrei morire di morte naturale lì lì senza troppi grilli per la testa? Vedo quelle sette foto dove io non ci sono. Non è una nostalgia prevedibile, diciamolo subito. Non è mancanza d'affetto di una madre che non esiste più. Non sono le recriminazioni sentimentali di un figlio a parlare. Non è questo. È altro. È il contenuto di quelle foto che mi sconvolge i sensi.
Che sconvolge anche i sensi vostri perché anche voi ce le avete quelle foto, uguali sebbene diverse. Io, per quanto riguarda me stesso, lo so cos'è. Lo so cosa mi fa piangere sempre, ininterrottamente, anche mentre vado a comprarmi le sigarette o fingo di ridere alle battute di un amico. Lo so. È che in quelle foto alberga una cosa che poi a noi non è più appartenuta. La semplicità. In quelle cazzo di foto c'è, in tutto e per tutto, un concetto di vita semplice che a noi è sfuggito totalmente. Rendendoci l'esistenza un groviglio artificioso così scadente, ma così scadente.
C'è, nelle foto delle nostre madri, il piacere genuino e purificato della vita. Un godimento continuo quando le cose stanno così. Tutta la semplicità che rende la vita accettabile.
Accettabile, un sinonimo di felicità. Perché semplice non vuol dire elementare. Eh no cazzo, non confondiamo i concetti simili ma diversi anni luce tra di loro. È come se tutto ad un tratto, come in un complotto silenzioso ordito da noi stessi, ci fossimo messi a pensare che semplice volesse dire banale. Frantumando, in pochi istanti, uno stile di vita decente e vincente.
Che danni inenarrabili siamo stati in grado di eseguire.
E lì il Quartetto Cetra che ce lo ricordava con ritornelli dementi e noi a mandarli a fare in culo, a non crederci, a sputtanarli come precoci propaggini di senilità. E poi non abbiamo creduto neanche ai Ricchi e Poveri che urlavano mangiare, bere e divertirsi un po' e noi sordi, beffardi, ci prendevamo gioco di loro, ruttavamo sulle loro rime e sulle loro origini, lì a schiaffeggiare bonari i loro culi vispi, riconoscendo poi decenni più tardi che avevano ragione proprio loro, quelli che ci sembravano, semplicemente, scemi.
Non avevano l'autorevolezza per convincerci, solo dentature smaglianti.

Pubblicitarie.
Bisognava credere ai caroselli, invece ci siamo fatti fottere il cervello dalle frustrazioni dei pensatori e noi, testardi e indefessi come api, abbiamo voluto farle a tutti i costi cose nostre, senza neanche capirle poi bene fino in fondo. Creando così un pastrocchio, uno di quei liquidi sughetti arrangiati scopiazzando la ricetta del grande chef. Che deficienti siamo stati. Ad un certo punto ci hanno detto che avevamo gli strumenti per risolvere noi stessi. Una bugia così mostruosa da produrre tossicomani a volontà e centinaia di aspiranti miliardari. Si volevano arricchire per accedere alla contentezza, i cazzoni, e hanno trovato galere ad ogni angolo di strada. Ascessi di solitudini riversate nelle griglie indistruttibili della mente. Ed invece erano proprio coloro senza autorevolezza che conoscevano il segreto. Ma è beffardo l'essere umano, alle volte. Si complica l'esistenza perché non ci crede che le cose possano essere lisce e scorrevoli. Perché, in quale momento preciso, abbiamo commesso questo errore di valutazione così grossolano? Chissà perché, mi domando senza trovare una risposta semplice che è quella che vorrei.
Le speculazioni complesse, in questo caso, mi sono del tutto non esaurienti.
Sarebbe esauriente solo una risposta semplice, che però non arriva mai da nessuna parte. Morti i semplici, ci siamo affacciati noi, torvi, sinistri, finto tenebrosi del segreto della vita. Credevamo di essere diventati complessi, ma eravamo ruzzolati solo nell'essere complicati. Che è tutta un'altra storia, triste assai. Avevamo ancora un piede nelle risate delle corse al sacco delle nostre madri, una volta, ma ce ne siamo liberati per impigliarci altrove. Ci siamo impigliati nei night club e nelle università, sui primi yacht e nelle fabbriche. Questioni d'estrazione sociale, di frequentazioni, di furbizia e fortuna. Senza trovare mai niente, solo un mastodontico, martellante, incomprensibile disagio. Un lungo frastuono. Questo è stato. Ma adesso basta. Ora mollo tutto. Lo giuro sul bambinello nella capanna davanti al bue e all'asinello.
C'è voluta tutta un'intensa guerra della domenica per liberarmi da quel comodino vuoto nella mia testa. Sto pieno di semplicità adesso. È come andare da bambini la domenica lungo via Caracciolo in mezzo a mamma e papà. Io devo solo guardare il mare, sniffarne l'afrore e mangiarmi il tarallo caldo. Al resto pensano loro e comunque hanno poco a cui pensare. Un caffè, una trattoria con due primi piatti e la vita si compie una volta e per tutte. Per il bambino fatemi due maccheroni al sugo. Il vino della casa. Per dolce ci sta la zuppa inglese oppure una cosa esotica, ermetica: il crème caramel.
"Ma che cazzo è?" chiede mio padre quasi incazzato, impaurito dalla vita che verrà.
"Il crème caramel?" dice il cameriere orgoglioso col tovagliolo sul braccio e le scarpe sfondate da duemila chilometri percorsi avanti e indietro dentro la trattoria e, ponendo l'accento sull'ultima "e" di caramel:
"Ma è la rivoluzione" aggiunge.
Perché si credeva che una roba francese fosse sempre una rivoluzione. In effetti, la decadenza del mondo non è forse cominciata a partire da quel cazzo di crème caramel? Poi saremmo precipitati nel risotto allo champagne, inghiottiti dalle pennette alla vodka, addirittura il maltagliato al profumo di rose, consegnandoci al fallimento lucido, lineare. Il mondo cambia a seconda dei menu e noi che non ce ne rendiamo conto. Ma papà mi salva in calcio d'angolo ancora per un poco, non sente ragioni:
"Mio figlio si prende la zuppa inglese" sentenzia con la stessa arroganza di un dittatore sudamericano.
Anche se a me mi faceva cacare la zuppa inglese e ci avrei messo volentieri i denti sopra alla rivoluzione.
Dopo pranzo, andiamo a guardare due barche sul molo traballante di legno. Senza invidia, gli piacerebbe avere un gozzetto a mio padre. Quest'estate ne affitterà uno per un paio di giorni. Perché ci ha il mito della pesca, anche se non sa nemmeno da dove si comincia. Prenderà solo un paio di pinterrè a fine giornata. Un pesce scemo da zuppetta. Ma sarà una delusione sopportabile, da riderci sopra. Questa era la vita, che a noi, in maniera avventata e catastrofica, ad un tratto, ci è parsa una morte. Che facce di cazzo che siamo stati! Che altro aggiungere? Solo grandissime facce di cazzo. Ma io, quanto è vero la madonna, mi riapproprierò di quella roba. Senza sforzo. Mi bastano un aereo, una spiaggia, una baracca e un paese arretrato. Voglio buttare una rete e ne uscirò soddisfatto solo quando da quella rete non uscirà semplicemente niente. Mangiare, bere e divertirsi un po'. Io voglio quello che hanno sempre voluto i Ricchi e Poveri. Voglio vivere come il Quartetto Cetra. Voglio le tendine alle finestre. Voglio placare tutto il casino solo con una camomilla.
Nient'altro. Voglio i baci dietro al collo e una certa discrezione nel fare l'amore. Io rivoglio i pomeriggi infiniti. E piangere al tramonto come Riccardo Cocciante.
Voglio tutta la tenerezza che facevo finta che non servisse perché indice di debolezza.
Liquidare le questioni con una mano quando sono troppo complicate, senza andarci dentro a piedi uniti. Voglio infilare gli occhiali da vista e guardare la vecchiaia.
Guardare la vecchiaia.
Per tutte queste ragioni, quando ho infilato la chiave nella porta di casa mia ero calmo come un budda. E mia moglie Maria se ne è accorta subito che non ero più quello scalmanato di qualche tempo prima. Lei, invece, purtroppo, era sempre la stessa. Immutabile come un cardinale.
Ora alberga lì, immarcescibile, sulla punta del divano e sei bottiglie di lacrime versate vicino al tavolino di cristallo. Vuole ricominciare lì dove avevamo interrotto.
Vuole che la aggredisca come di consuetudine altrimenti non ci crede che sta vivendo veramente. Invece si scontra con un camion di calma e di silenzio. E le manca il terreno sotto i piedi. Non mi riconosce, proprio nel giorno in cui io mi riconosco di più. C'è, nella donna moderna, una perseveranza nel litigio, che scuote anche gli animi più ripiegati. È una cimice, la donna moderna. Sale lentamente lungo tutto il corpo e succhia piccole dosi di sangue. Quando giunge al piede, ricomincia daccapo perché le vecchie bolle si sono ritirate Nel litigio a tempo indeterminato trova un'intima vertigine di soddisfazione che non la fa desistere. Mai. Mai. Un avvoltoio della discussione prolungata. Con una convinzione ottusa che, dentro la schermaglia, si annidi la soluzione del problema. Ma dato che la soluzione è complessa secondo loro, allora, per definizione, il litigio deve possedere una sua lunghezza incredibile, estenuante. Se desiste dal conflitto, statene certi, è solo un'interruzione pubblicitaria.
Una strategia di vendita del litigio. Una presa d'aria per ricominciare daccapo. Con nuovo vigore. Io, invece, di indole, pur di scongiurare un litigio, sarei pronto a vendere le enciclopedie porta a porta. Poi mi lascio fottere dal sangue al cervello che in me lavora alacre e allora deflagro nelle urla e nella cattiveria. Ma non adesso. Ora che ho altro a cui pensare. Ora che mi sono sintonizzato dopo venticinque anni di nuovo con la vita semplice.
Sbaglia l'attacco, Maria la monocorde. Sibila dall'oltretomba:
"Voglio il divorzio".
Ricomincia da dove aveva finito.
E crede di avere fornito l'incipit per quattro ore di guerra sotto il soffitto. Invece, ma lei non lo sa, è andata dritta dritta alla conclusione del problema perché io dico senza enfasi e con un tono sincero che lei non riconosce in me da quando ci siamo fidanzati:
"Accordato".
La vedo. È ferma, di pietra. Ma sta esattamente dentro a quelle brutte cadute sul fango quando vai per aria, perdi il senso dell'orientamento e non sai, per un frammento di secondo, come e dove cadrai. Ed è il panico.
Ma deve essere caduta e non si è fatta niente, perché ritrova il bandolo e fa marcia indietro con una frase significativa:
"E a tua figlia non ci pensi?".
"Sì, ci penso, ma ormai è grande, capirà, deve cominciare la sua vita finalmente. E le vite vere, spesse volte, cominciano con un grande dolore."
Mi è uscita dalla bocca una tale tempesta di buon senso che lei, incredula come il calamaro, inclina la testa di lato di quindici gradi. Con un'incredulità così ingorda, ma così ingorda che gli occhi le si spalancano come se avesse visto la Cappella Sistina.
Le palpebre le sbattono producendo un suono atonale.
Dischiude la bocca e solo adesso, per quei miracoli della volubilità del corpo umano, sono pronto a riconoscere che ha una bellissima bocca. Un pensiero che si era perso nella lontananza.
Distrutta dall'impotenza, si alza dal divano. Io mi avvicino a lei e l'abbraccio con una delicatezza, una premura che da me non ha mai conosciuto. Poi dico:
"Adesso mi faccio la valigia e me ne vado".
Nel momento preciso in cui la sto lasciando, ha trovato inaspettatamente l'uomo che ha sempre desiderato. Un uomo tenero. Un uomo comprensivo. Un uomo calmo.
Infine, un uomo affidabile.
Le sta crollando il mondo addosso. E lo sa. Mi seguirebbe in capo al mondo.
Esattamente dove sto per andare. Ma senza di lei. Troppo spesso le vite non s'incontrano, per questo soffriamo tale e quale come i bambini del Centro Africa senza cibo né acqua. Ecco tutto. Ma mentre il problema dell'Africa, con un po' di buona volontà, si potrebbe pure risolvere, qua invece non c'è un cazzo da fare. È così.
Sono, le nostre, sofferenze insensibili alle cordate umanitarie.
Le tremano le ginocchia, le labbra le si fanno esili fili bianchi di fiordilatte, le pupille la abbandonano e sviene sul tappeto. Aveva bisogno della pausa pubblicitaria.
L'ha trovata involontariamente. Il corpo le ha sconfitto il pensiero. È scivolata scomposta senza battere la testa. Questo è importante, perché ora posso andare a fare la valigia senza pronto soccorso e sensi di colpa. Ma non sono contento. Solo freddo.

Cattivo senza volontà di esserlo. Sono, molto semplicemente, un uomo. Come gli altri.
In camera da letto, mi arrampico come un Tarzan in pensione agli scaffali alti. Ho delle idee così chiare e semplici che il mondo mi sembra inventato da me. Un vestito su misura. Per cui, scaravento giù solo camiciole estive e morbidi pantaloni di lino.
Compongo una valigia piccola, mentre sento dalla cucina dei gemiti di dolore lancinante. Si è ripresa, Maria, e ha eletto la cucina a bara.
Afferro una foto di mia figlia di quando aveva due anni e poi chiudo il borsone.
Attraverso il corridoio, come dentro l'ovatta calda. Sono pronto per un addio semplice e concreto. Sono un altro.
"Mi comporterò come un gentiluomo. Ti lascio tutto, casa, macchina, tutto, prendo solo qualche milione per affrontare gli inizi della nuova vita. Non avrete mai più notizie di me, ma state tranquilli, immaginatemi vivo e sereno. Mi farò vivo solo un'altra volta, da morto. Ma avrò provveduto io alle spese del mio funerale. E ora non piangere più, Maria. Tu piangi perché credi, sbagliando, che c'è una sola vita su questa terra. Invece ce ne sono almeno tre, forse quattro. Tieni a mente quello che ti sto dicendo. Perché da qui in poi, questo è l'unico concetto buono a tenere in vita sia te che me."
Per adesso, non mi ascolta. Vuole piangere a tutti i costi. Ma poi le torneranno in mente queste parole, perché sono autentiche.
E saranno parole di sollievo.
Mi giro e me ne vado senza dire altro, senza guardare la casa, senza guardare la città, senza salutare Samanta, il maestro Mimmo Repetto, nessuno. Non bisogna annusare niente, perché potrei sentire la puzza di nostalgia che inchioda. Un piccolo sforzo ancora, per essere fuori dal mondo fatiscente. E da quello che ero fino a una mezz'oretta prima.
Dentro al tassì che mi portava all'aeroporto, quello, tanto per cambiare, ci ha provato. Lo percepisco per la milionesima volta che mi scruta attraverso lo specchietto retrovisore e si sta spappolando dalla curiosità. Poi prende il coraggio, abbatte l'imbarazzo perché non è più un ragazzino e me lo chiede:
"Ma voi siete il cantante?".
Mi sta scorrendo nel finestrino, dalla tangenziale, una città sconosciuta che conosco da quando sono nato. Non mi volto verso di lui. Non smuovo me stesso, mentre gli occhi mi cascano sulle troppe antenne che massacrano dei tetti indimenticabili e dico con una voce roca e stanca:
"No, non sono io".
Non ci ha creduto. Però sa stare al mondo e ha capito che non volevo rotture di cazzo. Ha ripreso a guardare avanti e ha pagato il pedaggio.
Poi, ho elaborato un pensiero semplice: lui resta qua per sempre, io me ne vado per sempre. E già la vita nuova non mi sembrava più tanto nuova. Ma era uno scoramento momentaneo. Il classico avvilimento che ti prende prima di qualsiasi viaggio.
Figuriamoci prima del viaggio che non prevede il biglietto di ritorno.
Quando mi sono voltato a vedere di nuovo la città questa non c'era più. Se ne era andata. C'era solo un muro sulla carreggiata e delle piante selvatiche. Roba da geometri frettolosi e approssimativi. Se ne era andata la città e se ne era andata pure quella folata di malinconia che mi aveva accompagnato la sera. Solo allora ho realizzato che ero solo. Come lo sono sempre stato.
Ma un po' più solo, adesso.

Paolo Sorrentino, Hanno tutti ragione


lunedì 31 ottobre 2011

Camilla Lopez

«Scesi in camera mia, sbadigliai e mi gettai sul letto. In quel momento mi ricordai dell’armadio. Mi alzai e andai ad aprirlo. Tutto era a posto, gli abiti appesi agli ometti, le valigie sul ripiano. Non c’era la luce dentro, così acesi un fiammifero e guardai per terra. In un angolo vidi alcuni granelli scuri, simili a del caffè macinato grosso. Vi premetti sopra un dito e li assaggiai con la punta della lingua. Nessun dubbio, era marijuana. Una volta Benny Cohen me l’aveva fatta vedere, mettendomi in guardia dal prenderla. Adesso sapevo perché era stata qui. Bisogna chiudersi in un locale a prova d’aria per fumarla. Ecco perché gli scendiletto erano stati spostati; se n’era servita per tappare la fessura sotto la porta.
Camilla si drogava. Annusai l’aria all’interno dell’armadio e i vestiti appesi. Si sentiva ancora un lieve odore di granturco bruciato. Camilla, la drogata.
Non erano affari miei, ma lei era Camilla. Si era presa gioco di me, mi aveva imbrogliato e per giunta era innamorata di un altro, ma era bella, molto bella, e io avevo bisogno di lei. Decisi quindi di farli diventare affari miei e quella sera mi infilai nella sua auto ad aspettarla.
− E così ti droghi, − le dissi.
− Solo ogni tanto, − obiettò − Quando sono stanca.
− Devi smetterla.
− Non ne sono dipendente.
− Comunque la devi piantare.
Si strinse nelle spalle. − A me va bene così.
− Promettimi che la farai finita.
Si fece una croce in corrispondenza del cuore.
− Che io possa morire all’istante −. Ma stava parlando ad Arturo, non a Sammy, e io sapevo che non avrebbe mantenuto la promessa. Mise in moto, poi si avviò lungo Broadway fino all’Ottava, dove svoltò, diretta alla Central Avenue. − Dove andiamo? − le dissi.
− Adesso vedrai.
[…]
Ci fermammo davanti a casa sua, in Temple Street. Era un edificio cadente, una casa di legno riarsa dal sole e agonizzante. Lei viveva lì, in un appartamento. Dentro c’era un letto pieghevole, una radio e un divano azzurro, sporco e troppo imbottito. La moquette era impolverata e cosparsa di briciole e in un angolo buio era stato gettato un rotocalco. I piani dei mobili erano ingombri di bambole di pezza, ricordi di notti di festa passate in qualche località marina. Appoggiata a una parete c’era una bicicletta, le cui gomme sgonfie indicavano che non veniva usata da tempo. Agli altri angoli c’erano una canna da pesca con la lenza tutta aggrovigliata e un fucile polveroso. Sotto il divano una mazza da baseball e tra i cuscini della poltrona era stata abbandonata una Bibbia. Il letto era disfatto e le lenzuola sporche. Alle pareti qualche riproduzione, fra cui quella di un capo indiano che salutava il cielo.
Andai in cucina. Dal lavandino saliva un odore di immondizia e sui fornelli c’era una padella piena di grasso rappreso. Aprii il frigo: non conteneva altro che una scatola di latte condensato e un panetto di burro. Lo sportello del ghiaccio non si chiudeva, ma non c’era da stupirsi. Guardai nell’armadio dietro il letto e vidi un mucchio di abiti accatastati sul fondo. Le grucce erano tutte vuote, tranne una, da cui pendeva un cappello di paglia, ridicolmente solo.
Era qui che viveva! E c’ero anch’io ora, e camminavo dove aveva camminato lei, toccavo le cose che aveva toccato lei e respiravo la stessa aria. Me l’ero immaginata così la sua casa. Avrei potuto riconoscerla anche a occhi chiusi, perché era impregnata del suo odore e recava i segni della sua esistenza febbrile, che la rendevano parte di un progetto senza speranza. Un appartamento a Temple Street, una casa a Los Angeles. Lei apparteneva alle terre ondulate, ai deserti sconfinati, agli alti picchi, avrebbe devastato qualsiasi abitazione, fatto scempio di una minuscola prigione come quella. E io l’avevo sempre saputo. Questa era la sua casa, la sua rovina, il suo sogno infranto.
Si tolse il soprabito e si buttò sul divano, dove rimase a fissare con aria cupa la moquette da quattro soldi. Mi sedetti in poltrona, accesi una sigaretta e lasciai vagare lo sguardo sull’incavo della sua schiena e dei suoi fianchi. Il corridoio buio di quell’albergo, il negro sinistro, la stanza nera e i drogati, e ora questa ragazza che amava un uomo che la odiava. Faceva tutto parte dello stesso quadro perverso, tinto di affascinante sudiciume. Mezzanotte a Temple Street e, tra noi, una scatola di marijuana. Lei se ne stava sdraiata, con le lunghe dita che sfioravano la moquette, indifferente e stanca, come in attesa.
− Hai mai provato?
− No.
− Non ti farà male, per una volta.
− Ho detto di no.
Si rizzò a sedere e si mise a frugare nella borsa in cerca della marijuana. Estrasse anche un pacchetto di cartine. Ne prese una, la riempì, l’arrotolò, la leccò, poi la strinse alle estremità e me la porse. Ripetei che non la volevo, ma la presi.
Se ne preparò una per sé. Poi si alzò e chiuse la finestra, assicurandosi che la maniglia tenesse. Si diresse quindi verso il letto, tirò via la coperta e l’appoggiò contro il fondo della porta. A questo punto lanciò un’occhiata attenta tutt’attorno e mi guardò, sorridendo. − Ognuno reagisce a modo suo, − commentò. − Forse ti renderà triste e ti farà venire voglia di piangere.
− Figurati.
Si accese la sigaretta, avvicinandomi il fiammifero perché potessi accendere anch’io.
− Non dovrei farlo, − dissi.
− Aspira, − continuò lei. − Poi trattieni il fumo a lungo, finché sentirai male. Allora lascialo andare.
è roba pericolosa, − osservai.
Aspirai e trattenni il fumo a lungo, come mi aveva detto. Poi lo lasciai uscire. Lei si appoggiò allo schienale del divano e fece lo stesso. − A volte ce ne vogliono due.
− Sono sicuro che non mi farà nessun effetto.
Fumammo fino a bruciarci le dita. Poi fui io ad arrotolarne altre due. A metà della seconda la sentii arrivare. Era una sensazione di leggerezza, di distacco dalla terra, accompagnata dalla gioia di chi ha vinto lo spazio e da uno straordinario senso di potere. Scoppiai a ridere e aspirai di nuovo. Lei aveva sul viso il freddo languore della notte precedente, una specie di remota passionalità. Io ormai mi ero spinto oltre i limiti della stanza, oltre la mia stessa carne, e fluttuavo in un mondo di lune splendenti e stelle luminose. Ero invincibile. Dov’era finito quel tipo dalle cupe felicità, dallo strano coraggio? Io ero un altro. Presi la lampada che stava sul tavolo accanto a me, la fissai e la gettai per terra.
Andò in mille pezzi. Scoppiai a ridere. Lei udì lo schianto, si voltò a guardare e si unì alla mia risata. − Non c’è niente da ridere, − le dissi.
Scoppiò a ridere di nuovo. Mi alzai, attraversai la stanza e la presi tra le braccia. Non ero mai stato così forte, e lei ansimò, compressa dalla mia stretta e dal mio desiderio.
La guardai mentre si spogliava e, da qualche piega della mia memoria terrena, affiorò il ricordo di aver già visto quella espressione, oscillante tra obbedienza e paura. La associai alla baracca nel deserto e a Sammy, che le ordinava di andare a prendere la legna. Sapevo che prima o poi sarebbe successo. Lei mi scivolò tra le braccia e io risi delle sue lacrime.
Quando il sogno finì e con esso la sensazione di fluttuare verso astri che esplodevano, quando il mio sangue riprese a scorrere nei suoi canali consueti e la stanza ritrovò i suoi contorni sordidi, quando il mondo tornò a essere una landa desolata, non provai altro che il mio vecchio senso di colpa e la consapevolezza di avere compiuto una trasgressione. Avevo commesso un crimine, un peccato contro la vita. Mi sedetti accanto a lei, che era ancora sdraiata sul divano, e fissai la moquette. Fu allora che vidi i frammenti di vetro provenienti dalla lampada rotta. Quando mi alzai sentii il dolore, la pena acuta della carne dei miei piedi, oppressi dal mio stesso peso. Mi meritavo di soffrire. Mi infilai le scarpe e mi accorsi di avere i piedi tagliati. Poi uscii nel luminoso stupore della notte. Zoppicando, percorsi tutta la strada fino a casa. Mi dissi che non avrei mai più rivisto Camilla Lopez.»

John Fante, Chiedi alla polvere

Il mare


«Sentendomi male nell’anima, cercai di affrontare il problema del perdono. E chi avrebbe dovuto perdonarmi? Quale Dio? Quale Cristo? Erano miti in cui avevo creduto un tempo ma ora era fede che mi sembrava mito. Questo è l’oceano e questo è Arturo. L’oceano è reale e Arturo crede che lo sia. Poi volto le spalle al mare e non vedo altro che terra. Continuo a camminare e la terra si estende fino all’orizzonte. Un anno, cinque anni, dieci anni, senza vedere il mare. Cosa è accaduto al mare, mi dico? Il mare è qui, rispondo, nel magazzino della memoria. Il mare è un mito. Non è mai esistito.  E invece c’era! Lo so perché sono nato sulle sue sponde, mi sono bagnato nelle sue acque! Mi ha nutrito e mi ha dato pace, e le sue affascinanti distanze hanno alimentato i miei sogni! No, Arturo, il mare non è mai esistito. Non è che desiderio, il tuo, ma continua pure a camminare nel deserto. Non lo rivedrai mai più, il mare. È un mito in cui una volta hai creduto. Eppure sorrido, perché ho ancora il salino nel sangue, e la terra, con tutte le sue strade, non riuscirà a confondermi, perché il mio sangue tornerà alla sorgente.»


John Fante, Chiedi alla polvere


domenica 30 ottobre 2011

Animali rari

«Quest’animale abbonda nelle regioni settentrionali, è lungo quattro o cinque pollici, ed è dotato di un istinto curioso. Ha gli occhi come di cornalina e il pelo d’un nero lustro, serico, morbido come un cuscino. È amatissimo dell’inchiostro di Cina: quando uno scrive, lui si siede con una mano sull’altra e le gambe incrociate, aspetta che quello abbia finito, e si beve il resto dell’inchiostro. Poi torna a sedersi accoccolato e resta tranquillo.

WANG TA-HAI (1791)»


«Plinio attribuisce a Zarathustra, fondatore della religione che tuttora si professa dai parsi di Bombay, la composizione di due milioni di versi. Lo storico arabo Tabarì afferma che le sue opere complete, eternate da devoti calligrafi, coprivano dodicimila pelli di vacca. Alessandro di Macedonia le fece bruciare a Persepoli. Ma la fedele memoria dei sacerdoti poté salvare i testi fondamentali, che già nel IX secolo vennero integrati da un’opera enciclopedica, il Bundahish. In questo leggiamo:

Dell’asino a tre zampe si dice che sta in mezzo all’oceano e che ha tre crani sei occhi nove bocche due orecchie un corno. Il suo pelame è bianco, il suo nutrimento è spirituale, e tutto in lui è giusto. Dei sei occhi ne ha due al posto degli occhi, due in sommo al capo, e due sulla nuca; con la penetrazione dei sei occhi soggioga e distrugge.
Delle nove bocche ne ha tre nella testa, tre nella nuca e tre nei fianchi... Ciascuno dei suoi crani, posto al suolo, occuperebbe lo spazio di un gregge di mille pecore, e intorno potrebbero manovrare fino a mille cavalieri. Quanto alle orecchie, potrebbero contenere il Mazandaran1. Il corno, d’una materia simile all’oro, è cavo e con mille ramificazioni. Con questo corno vincerà e dissiperà tutte le corruzioni dei malvagi.

Dell’ambra si sa che è lo sterco dell’asino a tre zampe. Nella mitologia del Mazdeismo, questo mostro benefico è uno degli ausiliari di Ahura Mazdah (Ormuz), principio della vita, della luce e della verità.»

1 Provincia settentrionale della Persia.

J. L. Borges, Manuale di zoologia fantastica

Karenin


«Alle sei squillò la sveglia. Era il momento di Karenin. Si svegliava sempre molto prima di loro, ma non aveva il coraggio di disturbarli. Aspettava pazientemente il suono della sveglia che gli dava il diritto di saltare sul letto, di zampettare sui loro corpi e di dare musate. Per un po' avevano cercato di impedirglielo e lo cacciavano giù dal letto, ma lui era più testardo di loro e alla fine si era conquistato il propri diritti. Del resto negli ultimi tempi Tereza si era accorta che era piacevole ricevere il buon giorno da Karenin. Il momento del risveglio era una vera e propria gioia per lui: si meravigliava ingenuamente e stupidamente di essere ancora al mondo e ne provava una felicità sincera. Lei invece si svegliava con disgusto, col desiderio di prolungare la notte e di non aprire gli occhi.
Adesso Karenin era in ingresso e guardava in alto l'attaccapanni dov'era appeso il collare con il guinzaglio. Lei glielo mise al collo e si avviarono insieme verso il negozio. Lì comprò latte, pane, burro e come sempre un panino per lui. Sulla strada del ritorno, lui le trotterellava accanto, col panino in bocca. Si guardava attorno con orgoglio, soddisfattissimo di essere notato e indicato dalla gente.
A casa si allungò il panino con la soglia della camera aspettando che Tomàš si accorgesse di lui, si accovacciasse e cominciasse a ringhiare, facendo finta di volergli prendere il panino. Era così ogni giorno: per cinque minuti buoni si rincorrevano su è giù per l'appartamento fino a che Karenin non si infilava sotto al tavolo e divorava rapidamente il panino.»


Milan Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere


Il paese delle viti


«Aveva cinque anni e sedeva in grembo alla madre.
“Come sono venuto al mondo, mamma?”
“Non lo so, mio piccolo pascià”.
“E chi lo sa?”
“Tua nonna”.
“Nonna, come sono venuto al mondo?”
“Tutti i bambini armeni nascono, in qualche modo”.
“Ma come, nonna?”
“Ecco: le ragazze armene vengono partorite sotto il fico”.
“E i ragazzi armeni?”
“Sotto la vite”.
“Ma qui da noi non ci sono viti”.
“È vero” disse la nonna. “Questo è un paese di montagna e ci sono soltanto miseri campi”.
“E la mia vite dov’è?”
“Dietro ai monti curdi. Dall’altra parte, dove c’è il mare”.
“È lontano?”
“No, mio piccolo pascià. Due giorni con la carretta”.
“Dietro ai monti, là dove c’è il mare?”
“Sì, mio piccolo pascià”.
“È là il paese delle viti?”
“Sì. Là c’è il paese delle viti”.

“Quando nascono i bambini armeni, la madre di Dio sorride, e benedice tutti gli alberi di fico e tutte le viti, e tutti gli uccelli nella terra dell’Hayastan cinguettano con voci angeliche”.
“Raccontami com’è andata quando io venni al mondo”.
“Non lo so di preciso, mio piccolo angelo”.
“E chi lo sa di preciso?”
“Eh, chi può saperlo… la tua vite, naturalmente. Quella lo sa, mio piccolo angelo”.

E i suoi genitori salirono sulla carretta trainata dall’asino, per andarlo a prendere. Sua madre aveva una grossa pancia ed era al nono mese. Gemeva e gridava, perché le doglie erano già cominciate. Disse a suo padre: “Sprona l’asino, deve correre veloce. Perché il mio piccolo Wartan è lì sotto la vite e aspetta che andiamo a prenderlo”. E suo padre disse: “Spronerò l’asino. Ma un asino è sempre un asino. Nessun bastone, nemmeno il migliore, può farlo correre di più”.
L’asino trotterellava tranquillo attraverso la terra dei curdi. Le montagne diventavano sempre più alte, le loro cime toccavano le nuvole.
“Un asino è sempre un asino” disse suo padre.
“Non ce la faccio più”.
“Allora prega il nostro Salvatore”.
E sua madre pregò colui che è morto per tutti noi
“Gesù” mormorava “aiutami”. E sentì Gesù che diceva: “Ti aiuterò. Non sentirai più dolore”. E infatti i dolori cessavano. L’asino tirava tranquillo la carretta verso le nuvole. Le montagne erano così alte che si era presi dalla vertigine se si guardavano giù in basso i villaggi curdi seminomadi, o ancora più lontano, dove abitavano gli armeni, in fondo alla valle.
“Non ho più dolori” disse sua madre a suo padre. “Il Signore mi ha esaudita”.
“Allora va tutto bene” disse suo padre.
“Impiegheremo davvero due giorni per arrivare alle viti?”
“Sì, se l’asino non si ferma”.
“E credi che il nostro Wartan aspetterà tutto il tempo?”
“Aspetterà di sicuro”.

Ma durante il viaggio molto latte era affluito nei seni di sua madre. E i seni di gonfiarono e divennero sempre più grossi, fino a pendere come dei secchi pesanti.
“Il latte non può aspettare ancora” disse sua madre a suo padre.
“Il latte cerca la piccola bocca del nostro caro, piccolo Wartan” disse suo padre.
“Ma il nostro Wartan è sempre lì, sotto la vite?”
“È lì” rispose suo padre.
“Avremmo dovuto prendere con noi un cucciolo” disse sua madre. “Le zingare fanno così: quando hanno troppo latte si mettono al seno un cucciolo perché lo succhi”.
“Siamo quasi arrivati” disse suo padre. “E il latte intanto aspetterà”.
“Per quanto?”
“Finché prenderai fra le braccia il nostro piccolo Wartan e gli porgerai il seno”.
“Avrà certo un musetto affamato?”
“Sì” rispose suo padre.

Ma il latte non volle aspettare. Anche l’asino divenne testardo e rallentò sempre più il passo. Ogni tanto si fermava e non voleva proseguire. Ma il latte non poteva aspettare.

E a un tratto i grossi sacchi di latte di sua madre esplosero. E interi torrenti di latte si rovesciarono giù dai monti, spandendosi per le valli anatoliche. E il latte continuò a sgorgare. E i torrenti si trasformarono in fiumi. E i fiumi in mari. Tutto il mondo annegò nel latte di sua madre. Solo la vite sotto la quale giaceva il piccolo Wartan rimase all’asciutto. E il piccolo Wartan gridava e gridava. Gridava chiedendo il latte di sua madre che era ovunque, tranne che lì da lui.» 

Edgar Hilsenrath, La fiaba dell'ultimo pensiero

L’asino a tre zampe



 

"Amore psicotropo"


«I dibattiti veri e propri erano stati fissati per le cinque: avevo perciò un po’ di tempo per riprendere fiato, e risalii così al centesimo piano. Dopo aver mangiato delle insalate troppo salate mi era venuta una gran sete, ma il bar del mio piano era inesorabilmente occupato da contestatori e dinamitardi con le loro ragazze; io ne avevo avuto abbastanza della conversazione con il barbuto papista (o antipapista), per cui mi accontentai di un bicchiere d’acqua del rubinetto.
Non appena l’ebbi trangugiata, si spense la luce in bagno e in tutte e due le camere; il telefono, indipendentemente dal numero che formavo, mi metteva in comunicazione con una segreteria automatica che raccontava la favola di Cenerentola. Avrei voluto scendere nella hall ma l’ascensore non funzionava. Sentii un canto corale di contestatori che sparavano a tempo; lontano da me, mi auguravo. Cose di questo genere accadono anche negli alberghi di prima categoria, ma non per questo sono meno irritanti. In mezzo a tutto ciò, quello che più mi sorprese fu la mia reazione. Il mio umore, diventato piuttosto nero dopo la conversazione con il papaltiratore, migliorava di secondo in secondo. Procedendo a tastoni per la camera, rovesciai alcuni oggetti, ma sorrisi con indulgenza nell’oscurità, e perfino l’aver violentemente sbattuto il ginocchio contro una valigia non diminuì la mia benevolenza verso il mondo intero. Brancolando nel buio, riuscii a trovare sul comodino i resti del cibo che avevo consumato in camera, fra la colazione e il pranzo, e infilai nel burro avanzato un pezzo di carta strappato da una cartella congressuale; quando lo accesi con un fiammifero ottenni, in verità, una gran folata di fumo, ma anche una debole fiammella, al cui chiarore mi adagiai in poltrona; avevo ancora davanti a me più di due ore di tempo libero, anche se una avrei dovuto impiegarla per scendere le scale (l’ascensore non funzionava). La mia serenità spirituale attraversò ulteriori fluttuazioni e cambiamenti che osservai con vivo interesse. Tutto mi appariva allegro, addirittura eccezionale. Potevo enumerare al volo una serie di motivi per spiegare lo stato d’animo in cui mi trovavo; fra tutte, la cosa più sublime mi sembrava l’appartamento dell’Hilton: immerso in un’impenetrabile oscurità, pieno di odore di bruciato e di fuliggine del pezzo di burro, tagliato fuori dal mondo, con il telefono che raccontava favole, mi appariva come uno dei posti più incantevole della terra. Avvertivo un prepotente desiderio di accarezzare qualcuno, non aveva importanza chi, o perlomeno stringere calorosamente la mano del prossimo, con uno sguardo profondo e pieno d’affetto.
Avrei baciato il mio più accanito nemico armato di doppietta. Il burro, struggendosi, sfrigolando e fumando si spegneva a poco a poco: il fatto che “sfrigolando” faccia rima con “fumando” mi fece ridere di gusto, sebbene, nel tentativo di riaccendere lo stoppino di carta, mi fossi ustionato tre dita. La fiammella del burro bruciava appena e io canterellavo a mezza voce arie di vecchie operette, senza nemmeno accorgermi che l’odore acre del fumo mi stava soffocando e le lacrime mi scendevano, dagli occhi arrossati, giù per le gote. Alzandomi, caddi lungo disteso, inciampando sulla valigia che si trovava sul pavimento, ma il bernoccolo, grosso come un uovo, che mi spuntò sulla fronte, non fece che migliorare il mio umore (per quanto fosse ancora possibile migliorarlo). Continuavo a ridere, nonostante quel fumo scuro e puzzolente mi facesse soffocare; nulla poteva intaccare il mio gioioso entusiasmo. Mi misi a letto, ancora disfatto dal mattino, sebbene già fosse pomeriggio inoltrato; alla servitù, che dava prova di tali sbadataggini, pensai come ai miei figli: non mi venivano in mente nient’altro che teneri vezzeggiativi e soavi paroline. Mi venne in mente che, se fossi morto soffocato, sarebbe stato il più divertente, il più simpatico genere di morte che ci si possa augurare. Questa constatazione era a tal punto incompatibile con tutta quanta la mia indole che ebbe su di me l’effetto di una sveglia. Nel mio animo avvenne una sorprendente scissione. Ero ancora colmo di una pacata comprensione, una sorta di universale benevolenza verso tutto ciò che esiste; avevo le mani così avide di accarezzare qualcuno che, in mancanza di altre persone, presi a lisciarmi delicatamente le guance e a tirarmi per gioco le orecchie; posi anche ripetutamente la mano destra alla sinistra per scambiare una vigorosa stretta. Persino le mie gambe fremevano dal desiderio di carezze. Con tutto ciò nel profondo del mio essere si accesero dei segnali di allarme: “Qualcosa non va!” gridava in me una voce lontana, debole. “Fa’ attenzione, Ijon, sii vigile, in guardia! Questa serenità non è degna di fede! Agisci, presto! Via! Avanti! Non stare in panciolle come Onassis, inondato di lacrime per il fumo e la fuliggine, con la fronte bernoccoluta, sprofondato in una benevolenza universale! È il sintomo di un nero tradimento!”. Nonostante queste voci, non mossi neppure un dito. Avevo la gola arida. Il cuore mi batteva forte da tempo, ma me lo spiegavo con l’amore universale destatosi all’improvviso. Andai in bagno, tanto tremenda era la mia sete; pensai all’insalata troppo salata del banchetto, o meglio del cocktail in piedi, poi, per prova, mi immaginai i signori J.W., H.C.M, M.W. e altri dei miei peggiori nemici; constati che, oltre al desiderio di una cordiale stretta di mano, di un caloroso bacio e dello scambio di parole e pensieri gentili, non provavo altri impulsi nei loro confronti. Questo era davvero allarmante. Con una mano sul pomello di nichel del rubinetto, tenendo nell’altra il bicchiere vuoto, raggelai. Lentamente lo riempii d’acqua e, contorcendo la bocca in una strana smorfia – vidi nello specchio le contrazioni dei lineamenti del viso – vuotai l’acqua nel lavandino.
L’acqua del rubinetto. Ma certo! Appena finito di berla erano avvenuti in me dei cambiamenti. Cosa mai poteva esserci dentro? Un veleno? Non avevo ancora sentito parlare di un’acqua che... Eppure, un momento! Sono un abbonato permanete della stampa scientifica. Ultimamente su Science News erano apparsi articoli su nuove sostanze psicotrope del gruppo dei cosiddetti benignatori, che inducono gioia e serenità artificiali. Ma sì! Avevo quell’articolo davanti agli occhi. Edonidol, benefattorina, enfasin, euforiasol, felicitol, altruisan, buonacarezzina e tutta la gamma dei derivati! Attraverso la reazione degli idruforzuri con le ammide, sintetizzate dallo stesso gruppo biochimico, il furiasol, pazzina, la sadistizzina, la flagellino, l’aggressium, il frustrandol, il colleran e molti altri preparati che provocano la collera (indicono cioè a picchiare e malmenare, nell’ambiente circostante, sia le cose inanimate che le cose viventi; l’effetto più decisivo dovevano averlo il calcinol e l’azzuffina).
Lo squillo del telefono interruppe questi pensieri; contemporaneamente tornò la luce. Era il portiere dell’albergo che, con voce umile e in tono solenne, si scusò per il guasto che era già stato riparato. Aprii la porta sul corridoio per dare aria alla stanza; nell’albergo, per quel che potevo vedere, regnava la calma. Intossicato, ancora pieno del desiderio di impartire benedizioni ed elargire carezze, chiusi la porta di scatto, mi sedetti in mezzo alla stanza e cominciai a lottare con me stesso. È incredibilmente difficile descrivere il mio stato d’animo in quel momento. Non si deve, comunque, credere che fossi lucido e razionale come può sembrare. Ogni riflessione critica era immersa nel miele e sguazzava fino alla paralisi in una specie di massa cremosa di ebete autoappagamento; il pensiero fluiva come uno sciroppo di sentimenti positivi e il mio animo pareva sprofondare nella più dolce delle paludi possibili, annegando in oli di rose e in glasse. Con forza mi costrinsi a pensare a quello che più mi disgustava: alla canaglia barbuta con la doppietta antipapista, alle dissolutezze degli editori della Letteratura Liberata e alloro banchetto babilonico-sodomita, ai signori W.C., J.C.M., A.K. e a tante altre canaglie e furfanti. Dovetti constatare ancora una volta, con sgomento, che amavo tutti, che perdonavo tutto a tutti, anzi, di più: immediatamente, proliferando come funghi, scaturirono dai miei pensieri argomenti in difesa di ogni male e di ogni bruttura. Un tempestoso uragano di amore fraterno mi dilaniava la testa; soprattutto mi faceva star male ciò che meglio si può esprimere con le parole “spinta a fare del bene”. Invece che ai veleni e agli psicotropi, pensavo avidamente alle vedove e alle orfanelle, alle quali avrei dato protezione con piacere; provavo crescente stupore per il fatto che, fino ad ora, avessi dedicato loro così poca attenzione. E che dire dei poveri, affamati, miserabili, gran Dio! Mi sorpresi in ginocchio sulla valigia, a gettare sul pavimento il suo contenuto, alla ricerca delle cose migliori da offrire ai bisognosi. E di nuovo deboli voci d’allarme risuonarono nel mio subconscio: “Attenzione! Non intontirti! Lotta! Falcia! Calcia! Salvati!” gridava qualcosa dentro di me stancamente, ma con disperazione. Era atrocemente lacerato. Percepivo la potente carica di un imperativo categorico, che mi impediva di far del male perfino a una mosca. Che peccato, pensai, che all’Hilton non ci siano topi e nemmeno ragni: come li avrei accarezzati, amati! Mosche, cimici, topi, zanzare, pidocchi, care creature del buon Dio! Benedissi di sfuggita il tavolo, la lampada e le mie gambe. Ma i residui di lucidità non mi avevano ancora abbandonato, per cui, improvvisamente, colpii la sinistra con la mano destra, che stava impartendo la benedizione, fino a contorcermi dal dolore. Non era male! Chi lo sa, poteva anche essere salvifico! Per fortuna la spinta a fare del bene aveva un carattere centrifugo: era agli altri, più che a me, che auguravo del bene. Riuscii ad assestarmi un paio di schiaffi, fino a torcermi la spina dorsale e a vedere le stelle. Bene, avanti così! Quando il viso mi si irrigidì, mi misi a tirar calci alle caviglie. Per fortuna avevo le scarpe pesanti, con la suola tremendamente dura. Dopo il trattamento a base di calci furiosi per un attimo mi sentii meglio, cioè peggio. Cautamente provai a pensare che cosa sarebbe successo se avessi dato un calcio al signor J.C.A. Non era più del tutto impossibile. Entrambe le caviglie i facevano un male del diavolo e, probabilmente grazie all’automaltrattamento, ero in grado di immaginarmi persino un pugno assestato al signor M.W. Senza badare al tremendo dolore, scalciai ancora. Tutto ciò che era a punta andava bene; usai una forchetta e poi degli spilli, tolti da una camicia non ancora usata. Non andò tutto liscio, anzi, esitai; dopo un paio di minuti ero ancora pronto a infiammarmi per una buona causa: di nuovo si sprigionò in me un geyser della più alta generosità e della più virtuosa passione. Ormai non avevo più dubbi: c’era qualcosa nell’acqua del rubinetto. Ma che sciocco! Da molto tempo avevo in valigia un sonnifero, mai usato: mi metteva di umore cupo e aggressivo, e proprio per questo non lo avevo mai preso: fortuna che non me ne ero sbarazzato! Inghiottii la compressa, masticandola con il burro che sapeva di fumo (evitavo l’acqua come la peste), poi trangugiai con sforzo due compresse di caffeina al fine di controbilanciare gli effetti del sonnifero; sedetti sul divano e attesi con paura, ma anche con impeti di amore fraterno, il risultato della lotta chimica nel mio organismo. L’amore continuava a farmi violenza, ero rabbonito come mai lo ero stato in vita mia. Pareva però che i preparati chimici cattivi avessero cominciato a prendere il sopravvento su quelli buoni. Ero pronto a continuare le buone azioni, ma con maggiore discernimento. A dire il vero avrei preferito essere l’ultimo dei furfanti, almeno per un po’ di tempo. Un quarto d’ora dopo ero tornato in me.»


Stanislaw Lem, Il congresso di futurologia


Cézanne

«Balzac descrive nella Pelle di Zigrino una "tovaglia bianca come uno strato di neve caduta di fresco e sulla quale s’elevano simmetricamente i coperti coronati di panini biondi. "Per tutta la mia giovinezza" diceva Cézanne "ho voluto dipingere questo, quella tovaglia di neve fresca… Ormai so che bisogna limitarsi a voler dipingere il 's’elevano simmetricamente i coperti', e il 'di panini biondi'. Se dipingo 'coronati', sono fregato, capite? E se davvero equilibro e sfumo i coperti e i panini come dal vero, siate sicuri che le corone, la neve e tutto il tremito vi saranno."»

Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne

Il re dei camosci

«Un rifugio del re dei camosci era sotto un mugo, scavato da lui stesso con le corna e le zampe. Era un’arte sconosciuta al branco, lui l’aveva imparata per nascondersi. La sua specie sapeva grattare la neve con gli zoccoli per cercare un po’ d’erba sbiadita. Lui aveva imparato a smuovere la terra.
Si era infilato sotto un mugo la prima volta per sfuggire all’odore di un uomo vicino. Quando era passato, aveva tolto dei sassi con le zampe e si era ricavato un buon riparo. Sotto il tetto di rami alzava il muso di notte verso l’alto del cielo, un ghiaione di sassi illuminati. A occhi larghi e respiro fumante fissava le costellazioni, in cui gli uomini stravedono figure di animali, l’aquila, l’orsa, lo scorpione, il toro.
Lui ci vedeva i frantumi staccati dai fulmini e i fiocchi di neve sopra il pelo nero di sua madre, il giorno che era fuggito da lei con la sorella, lontano dal suo corpo abbattuto.
D’estate le stelle cadevano a briciole, ardevano in volo spegnendosi sui prati. Allora andava da quelle cadute vicino, a leccarle. Il re assaggiava il sale delle stelle.»

Erri De Luca, Il peso della farfalla

Il compianto Gil

«Nel dipartirsi da questa per passare a miglior vita, il compianto Gil, lo smidollato privo di volontà di cui sopra, lasciò la famiglia in gravi ristrettezze, in situazione precaria. Nel suo caso l'espressione "partì da questa per passare a miglior vita" non era semplicemente una frase fatta, un luogo comune, ma la pura verità. Qualsiasi cosa l'aspettasse nel mistero dell'Aldilà: un paradiso di luci, musiche, angeli radiosi; un tenebroso inferno con pentoloni in ebollizione, o un umido limbo; un vagabondare senza fine negli spazi siderali, o il nulla, il non-essere e basta, qualsiasi cosa avrebbe rappresentato un notevole miglioramento, a paragone della vita con dona Rozilda.»

Jorge Amado, Dona Flor e i suoi due mariti