mercoledì 8 gennaio 2014

Il libro delle ultime vite



Era la prima volta che entravo nella biblioteca Nazionale. Era un edificio splendido, con ritratti di governanti e generali appesi ai muri, colonnati all'italiana e un bellissimo marmo ad intarsio – una delle costruzioni più importanti della città. Tuttavia, come per ogni altra cosa, aveva conosciuto giorni migliori. Al primo piano un soffitto aveva ceduto, le colonne si erano inclinate ed erano crollate, libri e giornali erano disseminati dappertutto. Continuai a vedere gruppetti di gente che circolava alla rinfusa – perlopiù uomini – ma nessuno mi prestava attenzione. Dall'altra parte degli scaffali con gli schedari, scoprii una porta rivestita di cuoio verde che portava a una scala. Salii i gradini su fino al piano superiore e mi ritrovai in un lungo corridoio dal soffitto basso, con numerose porte su entrambi i lati. Non c'era nessuno, e poiché non sentivo nessun rumore provenire da oltre queste porte, ritenni che le stanze fossero vuote. Cercai di aprire la prima porta a destra, ma era chiusa a chiave. Anche la seconda porta lo era. Poi, quando non me l'aspettavo più, la terza si aprì. Dentro c'erano cinque o sei uomini seduti intorno a un tavolo di legno, ce parlavano con voci animate. La stanza era spoglia di finestre, il muro di un colore giallastro era crepato e l'acqua gocciolava da un soffitto. Gli uomini avevano tutti la barba, erano vestiti di nero e portavano capelli in testa. Fui così sorpresa nel vederli, che mi sfuggì un lieve sussulto e fui sul punto di chiudere la porta, quando il più anziano di questi si voltò e mi lanciò un meraviglioso sorriso, un sorriso così caldo e cordiale che esitai.

– Le serve qualcosa? – chiese.

Aveva un forte accento (con la V trasformata in una f) ma non avrei potuto dire da quale paese provenisse. Le sserfe qualcossa? Lo guardai negli occhi e un fremito mi fece rabbrividire.

– Pensavo che tutti gli ebrei fossero morti, – sussurrai.

– Ce n'è ancora qualcuno vivo in giro, – rispose sorridendomi ancora. – Non è facile sbarazzarsi di noi, lo sa?

– Anch'io sono ebrea, – svelai senza riflettere. Mi chiamo Anna Blume e vengo da molto lontano. Ormai è un anno che vivo in città alla ricerca di mio fratello. Non penso che lei lo conosca. Si chiama William, William Blume.

– No, mia cara, – rispose scuotendo il capo. – Non ho mai incontrato suo fratello. Guardò verso i colleghi dall'altra parte del tavolo e pose la stessa domanda, ma nessuno di loro conosceva William.

– è passato tanto tempo, – dissi – a meno che non sia riuscito a scappare in qualche modo, sono sicura che è morto.

– è molto probabile, – disse il rabbino dolcemente. – Sono morti così in tanti. È meglio non attendersi miracoli.

– Non credo più in Dio, se è quello che intende. Ho smesso di credere quand'ero piccola.

– Non è facile infatti, – replicò il rabbino. – Se si considerano le circostanze, ci sono buone ragioni per cui tanti la pensano come lei.

– Non mi dirà che lei crede in Dio? – domandai.

– Noi parliamo con lui, ma se lui ci sente o no è tutta un'altra questione.

– La mia amica Isabel credeva in Dio, – continuai. – Anche lei è morta. Ho venduto la sua Bibbia per sette gloti al signor Gambino, il Restauratore. Ho fatto una cosa terribile, vero?

– Non necessariamente. Dopo tutto, ci sono cose più importanti dei libri. Il cibo viene prima delle preghiere.

In presenza di quest'uomo, mi stava stranamente accadendo di sentirmi sempre più bambina man mano che continuavo a parlare con lui. Forse mi ricordava com'erano le cose quand'ero molto giovane, negli anni oscuri in cui ancora credevo a quanto genitori e professori mi insegnavano. Non posso esserne certa, ma il fatto è che con lui mi sentivo su un terreno sicuro e sapevo che si trattava di una persona di cui potevo fidarmi. Quasi inconsciamente, mi ritrovai con le mani nelle tasche del mio cappotto e tirai fuori la foto di Samuel Farr.

– Cerco anche quest'uomo, – aggiunsi. – Si chiama Samuel Farr ed è molto probabile che sappia cos'è successo a mio fratello.

Passai la foto al rabbino che, dopo averla osservata per parecchi minuti, scosse il capo e disse di non riconoscere il volto. Proprio mentre mi stavo un po' demoralizzando, un uomo dall'altro capo del tavolo prese a parlare. Era il più giovane fra i presenti, e la sua barba rossastra era la più corta e più folta di quella degli altri.

– Rabbino, – disse timidamente. – Posso dire una cosa?

– Non hai bisogno di chiedere il permesso, Isaac, – rispose il rabbino. – Puoi dire quello che vuoi.

– Naturalmente non ne sono certo, ma penso di sapere chi sia quella persona, – continuò il giovane. – Almeno, conosco qualcuno con quel nome. Potrebbe non essere la persona che la giovane sta cercando, ma conosco quel nome.

[...]

La stanza era all'ottavo piano, l'ultimo dell'edificio. Isaac si allontanò in fretta a piccoli passi appena arrivammo, mormorando scuse inarticolate sul fatto che non voleva rimanere, e poi all'improvviso mi ritrovai di nuovo sola; in piedi nell'atrio nero come la notte con una candelina che mi bruciava fra le mani. C'è una legge sulla vita in città che dice che non si deve mai bussare a una porta a meno che non si sappia cosa c'è dall'altra parte. Avevo forse fatto tutta questa strada solo per incappare in nuove calamità? Samuel Farr per me non era niente più di un nome, un emblema di desideri impossibili e assurde speranze. Lo avevo usato come sprone per andare avanti, ma ora che finalmente ero giunta davanti alla sua porta mi sentivo terrorizzata. Se la candela non si fosse consumata così rapidamente, non avrei trovato il coraggio di bussare.

Una voce dura, ostile, urlò dalla stanza – Andatevene.

– Sto cercando Samuel Farr. C'è Samuel Farr lì dentro?

– Chi lo vuole? – chiese la voce? Anna Blume, – dissi.

– Non conosco nessuna Anna Blume – rispose la voce. – Vada via.

– Sono la sorella di William Blume, – dissi. – È più di una anno che lo cerco. Non mi può mandare via così. Continuerò a bussare finché non aprirà la porta.

Udii il rumore di una sedia che raschiava per terra seguito da quello dei passi nella mia direzione, e poi lo scatto della serratura che girava. La porta si aprì e venni finalmente sommersa dalla luce, un fascio enorme di raggi solari che si diffuse nell'atrio, proveniente da una finestra nella stanza. Mi ci volle qualche minuto per abituare gli occhi. Quando infine riuscii a scorgere la persona di fronte a me, la prima cosa che vidi fu un'arma – una piccola pistola nera puntata dritta al mio stomaco. Sì, era Samuel Farr, ma non somigliava più tanto alla fotografia. Il robusto giovanotto della foto si era trasformato in un magro e barbuto personaggio con le occhiaie scure, e dal suo corpo sembrava emanare un'energia imprevedibile e nervosa. Aveva l'aspetto di chi non dorme da un mese.

– Come faccio a sapere che sei chi dici di essere? – chiese.

– Perché lo dico io. Perché saresti uno stupido a non credermi.

– Ho bisogno di prove. Non ti farò entrare senza una prova.

– Tutto ciò che devi fare è ascoltarmi mentre parlo. Il mio accento è come il tuo. Proveniamo dallo stesso paese, dalla stessa città. Probabilmente siamo addirittura cresciuti nello stesso quartiere.

– Chiunque altro può imitare una voce. Mi devi mostrare qualcos'altro.

– Cosa ne dici di questa? – ed estrassi dalla tasca del cappotto la fotografia.

La studiò per dieci, venti secondi, senza dire una parola, e a poco a poco tutto il suo corpo sembrò accasciarsi, sprofondando in se stesso. Quando mi guardò di nuovo, aveva abbassato l'arma.

– Dio mio, esclamò a bassa voce, quasi in un sussurro. – Dove l'hai presa?

– Da Bogat. Me la diede prima che partissi.

– Sono io, – disse. – Ecco com'ero.

– Lo so.

– È difficile crederci, vero?

– Non proprio. Basta ricordare da quanto tempo sei qui.

Egli sembrò sovrappensiero per un attimo. Quando mi rivolse di nuovo lo sguardo fu come se non mi riconoscesse.

– Chi hai detto di essere? – Sorrise come per chiedere scusa e mi accorsi che aveva perso tre o quattro denti.

– Anna Blume, la sorella di William Blume.

– Blume?

– Esattamente.

– Immagino che tu voglia entrare, vero?

– Sì, è per questo che siamo qui. Dobbiamo parlare di molte cose.

La stanza era piccola, ma non tanto piccola da non contenere due persone. Un materasso sul pavimento, una scrivania e una seggiola accanto alla finestra, una stufa a legna, mucchi di giornali e libri contro uno dei muri, abiti in una casa di cartone. Mi ricordava le camere da letto degli studenti, somigliava a quella che avevi all'università l'anno in cui ti venni a trovare. Il soffitto era basso e scendeva verso la parete esterna in maniera così ripida che si poteva raggiungere quella parte della stanza solo piegando la schiena. Ma la finestra su quella parete era straordinaria – a forma di ventaglio, occupava quasi tutta la superficie. Era stupenda, fatta di lastre di vetro spesse e segmentate, divise da sottili barrette di piombo a formare un disegno intricato quanto l'ala di una farfalla. Da quella finestra si godeva di un panorama a perdita d'occhio, giù fino al bastone di Fiddler e oltre.

Samuel mi fece segno di sedere sul letto, poi si sedette sulla sedia della scrivania, ruotandola nella mia direzione. Si scusò per vermi puntato contro l'arma, ma la sua situazione era precaria, disse, e non aveva molta scelta. Viveva nella biblioteca ormai da quasi un anno, e si era sparsa la voce che avesse una grande somma di denaro nascosta in camera.

– Da quello che vedo qui, – dissi – non avrei mai immaginato che tu fossi ricco.

– Non uso i denaro per me. È per il libro che sto scrivendo. Pago la gente affinché venga qui a parlarmi. La pago per ogni intervista, secondo il tempo che dura. Un gloto per la prima ora, e mezzo gloto per ogni ora in più. Ne ho fatte a centinaia, una storia dietro l'altra. Non riesco a pensare a nessun altro modo per procedere. La storia è così grande, capisci, che è impossibile farsela raccontare da una singola persona.

Sam era stato inviato nella città da Bogat, e ancora adesso si chiedeva quale forza misteriosa si fosse impossessata di lui al punto da fargli accettare quell'incarico. – Sapevamo tutti che era successo qualcosa di terribile a tuo fratello, – disse. – Per oltre sei mesi non ricevemmo sue notizie e chiunque lo seguisse era destinato a finire nello stesso brodo. – Naturalmente Bogat non si scoraggiò, mi chiamò una mattina nel suo ufficio e disse: – Questa è l'occasione che hai sempre accettato, ragazzo. Ho intenzione di mandarti a rimpiazzare Blume –. I miei compiti erano chiari: scrivere i rapporti, scoprire cos'era successo a William, rimanere vivo. Tre giorni dopo mi invitarono a una festa d'addio con champagne e sigari. Bogat fece un brindisi e tutti bevvero alla mia salute, mi strinsero la mano e mi diedero una pacca sulla schiena. Mi sentii un invitato al mio funerale. Ma almeno non avevo tre bambini e un acquario di pesci rossi che mi aspettavano a casa come Willoughby. Si può dire di tutto del capo, ma non che non sia sensibile. Non gli ho mai rimproverato di avermi scelto. Il fatto era che probabilmente avevo voglia di venire, altrimenti mi sarebbe stato facile lasciar perdere. Ecco com'è iniziato. Preparai i bagagli, feci la punta alle mie matite e salutai tutti. Questo più di un anno e mezzo fa. Inutile dire che non inviai mai alcun rapporto e non trovai mai William. Per adesso, a quanto pare, sono ancora vivo e vegeto. Ma non me la sentirei di scommettere su quanto durerà.

[…]

Sam parlava a scatti e con tono ironico, saltando da un discorso all'altro tanto che mi riusciva difficile seguirlo. Mi dava l'impressione di un uomo sul punto di crollare – di qualcuno che si fosse spinto troppo in là – e che riuscisse a malapena a reggersi in piedi. Aveva accumulato più di trecento pagine di appunti, disse. Continuando a lavorare a questo ritmo pensava di poter finire il lavoro preliminare sul libro in altri cinque o sei mesi. Il problema era che gli stavano per finire i soldi e tutti i pronostici sembravano contro di lui. Non poteva più permettersi di fare interviste, dato il livello pericolosamente basso a cui erano scesi i suoi fondi, ora mangiava solo ogni due giorni. Naturalmente questo non faceva che peggiorare le cose. Tutte le sue forze erano state minate e alcune volte si sentiva così stordito da non vedere neppure le parole che stava scrivendo. Talvolta, disse, si addormentava di colpo sulla scrivania senza neanche accorgersene.

– Ti ucciderai prima di aver finito, – dissi. – E per quale motivo? Dovresti smettere di scrivere il libro e prenderti cura di te.

– Non posso fermarmi. Il libro è l'unica cosa che dà la forza di andare avanti. Mi tiene lontano dalle inquietudini sul mio futuro e mi impedisce di farmi risucchiare dalla mia vita. Se mi fermassi, sarei perso. Non penso che riuscirei a sopravvivere un giorno di più.

– Ma non c'è nessuno che leggerà il tuo dannato libro, – dissi rabbiosamente. – Non capisci? Non importa quante pagine scriverai, nessuno vedrà mai cosa hai fatto.

– Ti sbagli. Riporterò a casa il manoscritto. Il libro verrà pubblicato e tutti sapranno cosa sta succedendo qui.


Paul Auster, Nel paese delle ultime cose

Era la prima volta che entravo nella biblioteca Nazionale. Era un edificio splendido, con ritratti di governanti e generali appesi ai muri, colonnati all'italiana e un bellissimo marmo ad intarsio – una delle costruzioni più importanti della città. Tuttavia, come per ogni altra cosa, aveva conosciuto giorni migliori. Al primo piano un soffitto aveva ceduto, le colonne si erano inclinate ed erano crollate, libri e giornali erano disseminati dappertutto. Continuai a vedere gruppetti di gente che circolava alla rinfusa – perlopiù uomini – ma nessuno mi prestava attenzione. Dall'altra parte degli scaffali con gli schedari, scoprii una porta rivestita di cuoio verde che portava a una scala. Salii i gradini su fino al piano superiore e mi ritrovai in un lungo corridoio dal soffitto basso, con numerose porte su entrambi i lati. Non c'era nessuno, e poiché non sentivo nessun rumore provenire da oltre queste porte, ritenni che le stanze fossero vuote. Cercai di aprire la prima porta a destra, ma era chiusa a chiave. Anche la seconda porta lo era. Poi, quando non me l'aspettavo più, la terza si aprì. Dentro c'erano cinque o sei uomini seduti intorno a un tavolo di legno, ce parlavano con voci animate. La stanza era spoglia di finestre, il muro di un colore giallastro era crepato e l'acqua gocciolava da un soffitto. Gli uomini avevano tutti la barba, erano vestiti di nero e portavano capelli in testa. Fui così sorpresa nel vederli, che mi sfuggì un lieve sussulto e fui sul punto di chiudere la porta, quando il più anziano di questi si voltò e mi lanciò un meraviglioso sorriso, un sorriso così caldo e cordiale che esitai.

– Le serve qualcosa? – chiese.

Aveva un forte accento (con la V trasformata in una f) ma non avrei potuto dire da quale paese provenisse. Le sserfe qualcossa? Lo guardai negli occhi e un fremito mi fece rabbrividire.

– Pensavo che tutti gli ebrei fossero morti, – sussurrai.

– Ce n'è ancora qualcuno vivo in giro, – rispose sorridendomi ancora. – Non è facile sbarazzarsi di noi, lo sa?

– Anch'io sono ebrea, – svelai senza riflettere. Mi chiamo Anna Blume e vengo da molto lontano. Ormai è un anno che vivo in città alla ricerca di mio fratello. Non penso che lei lo conosca. Si chiama William, William Blume.

– No, mia cara, – rispose scuotendo il capo. – Non ho mai incontrato suo fratello. Guardò verso i colleghi dall'altra parte del tavolo e pose la stessa domanda, ma nessuno di loro conosceva William.

– è passato tanto tempo, – dissi – a meno che non sia riuscito a scappare in qualche modo, sono sicura che è morto.

– è molto probabile, – disse il rabbino dolcemente. – Sono morti così in tanti. È meglio non attendersi miracoli.

– Non credo più in Dio, se è quello che intende. Ho smesso di credere quand'ero piccola.

– Non è facile infatti, – replicò il rabbino. – Se si considerano le circostanze, ci sono buone ragioni per cui tanti la pensano come lei.

– Non mi dirà che lei crede in Dio? – domandai.

– Noi parliamo con lui, ma se lui ci sente o no è tutta un'altra questione.

– La mia amica Isabel credeva in Dio, – continuai. – Anche lei è morta. Ho venduto la sua Bibbia per sette gloti al signor Gambino, il Restauratore. Ho fatto una cosa terribile, vero?

– Non necessariamente. Dopo tutto, ci sono cose più importanti dei libri. Il cibo viene prima delle preghiere.

In presenza di quest'uomo, mi stava stranamente accadendo di sentirmi sempre più bambina man mano che continuavo a parlare con lui. Forse mi ricordava com'erano le cose quand'ero molto giovane, negli anni oscuri in cui ancora credevo a quanto genitori e professori mi insegnavano. Non posso esserne certa, ma il fatto è che con lui mi sentivo su un terreno sicuro e sapevo che si trattava di una persona di cui potevo fidarmi. Quasi inconsciamente, mi ritrovai con le mani nelle tasche del mio cappotto e tirai fuori la foto di Samuel Farr.

– Cerco anche quest'uomo, – aggiunsi. – Si chiama Samuel Farr ed è molto probabile che sappia cos'è successo a mio fratello.

Passai la foto al rabbino che, dopo averla osservata per parecchi minuti, scosse il capo e disse di non riconoscere il volto. Proprio mentre mi stavo un po' demoralizzando, un uomo dall'altro capo del tavolo prese a parlare. Era il più giovane fra i presenti, e la sua barba rossastra era la più corta e più folta di quella degli altri.

– Rabbino, – disse timidamente. – Posso dire una cosa?

– Non hai bisogno di chiedere il permesso, Isaac, – rispose il rabbino. – Puoi dire quello che vuoi.

– Naturalmente non ne sono certo, ma penso di sapere chi sia quella persona, – continuò il giovane. – Almeno, conosco qualcuno con quel nome. Potrebbe non essere la persona che la giovane sta cercando, ma conosco quel nome.

[...]

La stanza era all'ottavo piano, l'ultimo dell'edificio. Isaac si allontanò in fretta a piccoli passi appena arrivammo, mormorando scuse inarticolate sul fatto che non voleva rimanere, e poi all'improvviso mi ritrovai di nuovo sola; in piedi nell'atrio nero come la notte con una candelina che mi bruciava fra le mani. C'è una legge sulla vita in città che dice che non si deve mai bussare a una porta a meno che non si sappia cosa c'è dall'altra parte. Avevo forse fatto tutta questa strada solo per incappare in nuove calamità? Samuel Farr per me non era niente più di un nome, un emblema di desideri impossibili e assurde speranze. Lo avevo usato come sprone per andare avanti, ma ora che finalmente ero giunta davanti alla sua porta mi sentivo terrorizzata. Se la candela non si fosse consumata così rapidamente, non avrei trovato il coraggio di bussare.

Una voce dura, ostile, urlò dalla stanza – Andatevene.

– Sto cercando Samuel Farr. C'è Samuel Farr lì dentro?

– Chi lo vuole? – chiese la voce? Anna Blume, – dissi.

– Non conosco nessuna Anna Blume – rispose la voce. – Vada via.

– Sono la sorella di William Blume, – dissi. – È più di una anno che lo cerco. Non mi può mandare via così. Continuerò a bussare finché non aprirà la porta.

Udii il rumore di una sedia che raschiava per terra seguito da quello dei passi nella mia direzione, e poi lo scatto della serratura che girava. La porta si aprì e venni finalmente sommersa dalla luce, un fascio enorme di raggi solari che si diffuse nell'atrio, proveniente da una finestra nella stanza. Mi ci volle qualche minuto per abituare gli occhi. Quando infine riuscii a scorgere la persona di fronte a me, la prima cosa che vidi fu un'arma – una piccola pistola nera puntata dritta al mio stomaco. Sì, era Samuel Farr, ma non somigliava più tanto alla fotografia. Il robusto giovanotto della foto si era trasformato in un magro e barbuto personaggio con le occhiaie scure, e dal suo corpo sembrava emanare un'energia imprevedibile e nervosa. Aveva l'aspetto di chi non dorme da un mese.

– Come faccio a sapere che sei chi dici di essere? – chiese.

– Perché lo dico io. Perché saresti uno stupido a non credermi.

– Ho bisogno di prove. Non ti farò entrare senza una prova.

– Tutto ciò che devi fare è ascoltarmi mentre parlo. Il mio accento è come il tuo. Proveniamo dallo stesso paese, dalla stessa città. Probabilmente siamo addirittura cresciuti nello stesso quartiere.

– Chiunque altro può imitare una voce. Mi devi mostrare qualcos'altro.

– Cosa ne dici di questa? – ed estrassi dalla tasca del cappotto la fotografia.

La studiò per dieci, venti secondi, senza dire una parola, e a poco a poco tutto il suo corpo sembrò accasciarsi, sprofondando in se stesso. Quando mi guardò di nuovo, aveva abbassato l'arma.

– Dio mio, esclamò a bassa voce, quasi in un sussurro. – Dove l'hai presa?

– Da Bogat. Me la diede prima che partissi.

– Sono io, – disse. – Ecco com'ero.

– Lo so.

– È difficile crederci, vero?

– Non proprio. Basta ricordare da quanto tempo sei qui.

Egli sembrò sovrappensiero per un attimo. Quando mi rivolse di nuovo lo sguardo fu come se non mi riconoscesse.

– Chi hai detto di essere? – Sorrise come per chiedere scusa e mi accorsi che aveva perso tre o quattro denti.

– Anna Blume, la sorella di William Blume.

– Blume?

– Esattamente.

– Immagino che tu voglia entrare, vero?

– Sì, è per questo che siamo qui. Dobbiamo parlare di molte cose.

La stanza era piccola, ma non tanto piccola da non contenere due persone. Un materasso sul pavimento, una scrivania e una seggiola accanto alla finestra, una stufa a legna, mucchi di giornali e libri contro uno dei muri, abiti in una casa di cartone. Mi ricordava le camere da letto degli studenti, somigliava a quella che avevi all'università l'anno in cui ti venni a trovare. Il soffitto era basso e scendeva verso la parete esterna in maniera così ripida che si poteva raggiungere quella parte della stanza solo piegando la schiena. Ma la finestra su quella parete era straordinaria – a forma di ventaglio, occupava quasi tutta la superficie. Era stupenda, fatta di lastre di vetro spesse e segmentate, divise da sottili barrette di piombo a formare un disegno intricato quanto l'ala di una farfalla. Da quella finestra si godeva di un panorama a perdita d'occhio, giù fino al bastone di Fiddler e oltre.

Samuel mi fece segno di sedere sul letto, poi si sedette sulla sedia della scrivania, ruotandola nella mia direzione. Si scusò per vermi puntato contro l'arma, ma la sua situazione era precaria, disse, e non aveva molta scelta. Viveva nella biblioteca ormai da quasi un anno, e si era sparsa la voce che avesse una grande somma di denaro nascosta in camera.

– Da quello che vedo qui, – dissi – non avrei mai immaginato che tu fossi ricco.

– Non uso i denaro per me. È per il libro che sto scrivendo. Pago la gente affinché venga qui a parlarmi. La pago per ogni intervista, secondo il tempo che dura. Un gloto per la prima ora, e mezzo gloto per ogni ora in più. Ne ho fatte a centinaia, una storia dietro l'altra. Non riesco a pensare a nessun altro modo per procedere. La storia è così grande, capisci, che è impossibile farsela raccontare da una singola persona.

Sam era stato inviato nella città da Bogat, e ancora adesso si chiedeva quale forza misteriosa si fosse impossessata di lui al punto da fargli accettare quell'incarico. – Sapevamo tutti che era successo qualcosa di terribile a tuo fratello, – disse. – Per oltre sei mesi non ricevemmo sue notizie e chiunque lo seguisse era destinato a finire nello stesso brodo. – Naturalmente Bogat non si scoraggiò, mi chiamò una mattina nel suo ufficio e disse: – Questa è l'occasione che hai sempre accettato, ragazzo. Ho intenzione di mandarti a rimpiazzare Blume –. I miei compiti erano chiari: scrivere i rapporti, scoprire cos'era successo a William, rimanere vivo. Tre giorni dopo mi invitarono a una festa d'addio con champagne e sigari. Bogat fece un brindisi e tutti bevvero alla mia salute, mi strinsero la mano e mi diedero una pacca sulla schiena. Mi sentii un invitato al mio funerale. Ma almeno non avevo tre bambini e un acquario di pesci rossi che mi aspettavano a casa come Willoughby. Si può dire di tutto del capo, ma non che non sia sensibile. Non gli ho mai rimproverato di avermi scelto. Il fatto era che probabilmente avevo voglia di venire, altrimenti mi sarebbe stato facile lasciar perdere. Ecco com'è iniziato. Preparai i bagagli, feci la punta alle mie matite e salutai tutti. Questo più di un anno e mezzo fa. Inutile dire che non inviai mai alcun rapporto e non trovai mai William. Per adesso, a quanto pare, sono ancora vivo e vegeto. Ma non me la sentirei di scommettere su quanto durerà.

[…]

Sam parlava a scatti e con tono ironico, saltando da un discorso all'altro tanto che mi riusciva difficile seguirlo. Mi dava l'impressione di un uomo sul punto di crollare – di qualcuno che si fosse spinto troppo in là – e che riuscisse a malapena a reggersi in piedi. Aveva accumulato più di trecento pagine di appunti, disse. Continuando a lavorare a questo ritmo pensava di poter finire il lavoro preliminare sul libro in altri cinque o sei mesi. Il problema era che gli stavano per finire i soldi e tutti i pronostici sembravano contro di lui. Non poteva più permettersi di fare interviste, dato il livello pericolosamente basso a cui erano scesi i suoi fondi, ora mangiava solo ogni due giorni. Naturalmente questo non faceva che peggiorare le cose. Tutte le sue forze erano state minate e alcune volte si sentiva così stordito da non vedere neppure le parole che stava scrivendo. Talvolta, disse, si addormentava di colpo sulla scrivania senza neanche accorgersene.

– Ti ucciderai prima di aver finito, – dissi. – E per quale motivo? Dovresti smettere di scrivere il libro e prenderti cura di te.

– Non posso fermarmi. Il libro è l'unica cosa che dà la forza di andare avanti. Mi tiene lontano dalle inquietudini sul mio futuro e mi impedisce di farmi risucchiare dalla mia vita. Se mi fermassi, sarei perso. Non penso che riuscirei a sopravvivere un giorno di più.

– Ma non c'è nessuno che leggerà il tuo dannato libro, – dissi rabbiosamente. – Non capisci? Non importa quante pagine scriverai, nessuno vedrà mai cosa hai fatto.

– Ti sbagli. Riporterò a casa il manoscritto. Il libro verrà pubblicato e tutti sapranno cosa sta succedendo qui.


Paul Auster, Nel paese delle ultime cose

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